News
Archivio newsPolitiche attive del lavoro: il PNRR scrive le linee guida della riforma
La nuova impostazione delle politiche attive è inserita nel PNRR e qualificata come riforma di sistema. Ruota sul rafforzamento dei Centri per l’Impiego, sul Programma di Garanzia di Occupabilità dei lavoratori (Gol), sul Fondo Nuove Competenze e sull’estensione della collaborazione tra i sistemi pubblico e privato. L’orizzonte temporale è quello del Next Generation Eu, 2021-2025. In particolare, il programma Gol dovrà coinvolgere 3 milioni di beneficiari di cui almeno 800mila in attività di formazione. E Gol si intersecherà con la prossima riforma degli ammortizzatori sociali. Con un augurio: che gli stimoli che provengono dall’Unione europea possono favorire un approccio alla riforma più realistico!
La reazione alla terribile crisi causata dalla pandemia del Covid-19 si va concretizzando nella creazione di opportunità straordinarie quanto complesse. Le quali richiedono letture articolate e scevre da qualsiasi semplificazione e banalizzazione. Ciò vale per molti aspetti delle politiche pubbliche, incluso il lavoro. Perciò, nell’approccio al dibattito sul reddito di cittadinanza e sulle politiche attive per il lavoro, è bene comprendere lo scenario nel quale si deve elaborare qualsiasi iniziativa di riforma. Facciamo, allora, un passo indietro, per ricordare la situazione del nostro Paese prima dell’irruzione della pandemia. Dove eravamo nel 2019? L’analisi della curva della Cassa Integrazione in quell’anno, prodotta dal Centro Studi Mercato del Lavoro e Contrattazione della nostra Associazione, Lavoro&Welfare, mise in evidenza che “dopo una diminuzione ininterrotta dal 2012 al 2018 con un calo dell’80,61% (da 1 miliardo di ore a 200 milioni), il 2019 ha segnato una inversione di tendenza con un +20,20%”. Nel gennaio 2020, la Cassa Integrazione crebbe addirittura del 40,64% rispetto allo stesso mese del 2019. Dunque, già prima dell’assalto del virus che condiziona la nostra esistenza dalla primavera del 2020, era evidentemente urgente metter mano a misure eccezionali per stimolare il sistema produttivo e l’economia. Dobbiamo, perciò, essere acutamente consapevoli del fatto che “ritornare” a una condizione economica pre-Covid non è sufficiente per rimettere in sesto il nostro Paese. Poco più di un anno e mezzo dopo l’elaborazione di quei dati allarmanti, l’Unione Europea ha, ormai, attivato sui piani che, con l’orizzonte della digitalizzazione dell’economia e della neutralità ambientale, prefigurano una rivoluzione industriale e sociale e avviato, in tale quadro, il piano di finanziamento delle riforme strutturali Next Generation Eu. A questa iniziativa, come noto, corrispondono i Piani Nazionali di Ripresa e Resilienza. Per quel che riguarda l’Italia, in agosto, è partita la prima tranche da 25 miliardi. Giova, in questo contesto, citare la Relazione su una nuova strategia industriale della Commissione per l’Industria, la Ricerca e l’Energia del Parlamento europeo dell’ottobre 2020, in particolare il Parere della Commissione per l'occupazione e gli affari sociali, che “sottolinea la necessità di evidenziare il rischio di perdite di posti di lavoro a causa della transizione industriale e la responsabilità delle autorità in termini di protezione sociale; invita gli Stati membri ad assicurare retribuzioni adeguate e un sostegno per i lavoratori durante la transizione, con particolare attenzione all'occupabilità e al benessere, e a valutare una gamma più ampia di misure di protezione sociale, come regimi nazionali di reddito minimo garantito, indennità di disoccupazione, aiuti per le famiglie, aiuti per coprire i costi del riscaldamento, pensioni adeguate, borse di studio per gli studenti, pagamento di tirocini e sostegno alle persone con disabilità, al fine di garantire condizioni di vita dignitose”. Non si tratta, insomma, soltanto di migliorare l’esistente, ma di prepararsi a un futuro disegnato in un progetto che coinvolga l’intera Unione rispetto al quale i singoli Paesi devono, con grande lungimiranza, evitare - in parole povere - di perdere un treno indirizzato molto lontano e che non ripasserà. Una questione culturale, prima che politica, che richiede ambizione e concretezza straordinarie perché l’industria e l’economia e, perciò, i territori, i settori, i distretti saranno rivoluzionati e si deve esser pronti a rispondere a tali sollecitazioni evitando di restare intrappolati nella risacca di ciò che è stato e più non sarà. Tutto ciò ci dice che, in un corretto ragionamento sistemico, il reddito di cittadinanza è da mantenere come strumento di protezione sociale, come sostegno per i bisognosi reali - nel solco di quello che fu il Rei - nell’ottica indicata dal Parlamento europeo. Parimenti, è logico impostare le politiche attive per il lavoro nel contesto di misure specifiche di largo respiro. D’altronde, da questo punto di vista, il bilancio del RdC è chiaro: su oltre un milione e mezzo di beneficiari, poco più di un milione sono occupabili; di questi poco più del 30% è stato preso in carico dai servizi e soltanto lo 0,3% ha ottenuto un tirocinio. La riforma - sarebbe meglio dire, la nuova impostazione - delle politiche attive, in coerenza con quanto sopra citato in materia di politiche industriali e sociali dell’Unione, è inserita nel PNRR e qualificata come riforma di sistema. Essa prevede il rafforzamento dei Centri per l’Impiego, il programma Gol, il Fondo Nuove Competenze, l’estensione della collaborazione tra i sistemi pubblico e privato. L’orizzonte temporale è quello del NextGenEu - 2021-2025. Le risorse provengono dal Bilancio dello Stato, dal PNRR e dal pacchetto React-Eu, altra misura di risposta alla crisi attuata dall’Unione. Esaminiamo brevemente alcuni aspetti della riforma, a partire da un nodo critico: l’integrazione tra Istituzioni. Definite le politiche attive sul piano nazionale, la loro attuazione toccherà - come previsto dalla Costituzione - alle Regioni. Questo è stato, senz’altro, un problema fondamentale sul quale il reddito di cittadinanza si è incagliato. Si cercherà, insomma, di conseguire differenziazioni territoriali in una cornice unitaria nazionale. Secondo punto, il superamento della separazione tra politiche passive e politiche attive del lavoro. La formazione diventa una chiave di volta e deve essere dedicata e impostata su fabbisogni reali: per il passaggio dal non lavoro al lavoro; per la difesa della propria attività e per il miglioramento delle competenze. Ciò sarebbe stato sempre necessario ed è ineludibile nel contesto della rivoluzione industriale, che modificherà drammaticamente i profili delle produzioni e dei territori, nella quale siamo coinvolti. E in questo senso si presentano altri obiettivi della riforma relativi allo sviluppo dell’integrazione di imprese e reti territoriali dei servizi. Il Programma di Garanzia di Occupabilità dei lavoratori (Gol) dovrà investire, entro il 2025, tre milioni di beneficiari, almeno 800mila dei quali dovranno essere coinvolti in attività di formazione. Gol incrocerà la riforma degli ammortizzatori sociali, al momento in discussione. La sua platea sarà composta di una varietà di soggetti percettori o non di ammortizzatori sociali in costanza e in assenza di rapporto di lavoro, soggetti fragili, disoccupati senza reddito, working poor. Articolata è la mappa dei percorsi nei servizi che vanno dal reinserimento lavorativo all’upskilling e reskilling a percorsi di inclusione e ricollocazione collettiva. In conclusione, un augurio. La vastità della prospettiva nella quale ci troviamo oggi può sollevarci da un errore concettuale che ha fino a oggi danneggiato il dibattito sulle politiche attive per il lavoro: l’idea che esista “un” mercato del lavoro è fallace. Nelle differenze tra i settori, i distretti, i territori, le catene del valore esiste una pluralità di mercati. L’integrazione prospettica nazionale e l’articolazione territoriale del nuovo piano, con gli stimoli che provengono dall’Unione Europea, possono favorire un approccio più realistico. Che esso si concretizzi è una necessità vitale. Copyright © - Riproduzione riservata