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Smart working: siamo ad una svolta!

È arrivato il momento di provare a rendere stabile lo smart working, per consentire a datori di lavoro e lavoratori di ottenere vantaggi reciproci dall’esperienza maturata nel periodo della pandemia. Nel protocollo nazionale si prevede che l’accordo individuale sottoscritto tra datore di lavoro e lavoratore si adegui ai contenuti dell’eventuale contrattazione collettiva di riferimento e che sia coerente con la disciplina di legge e con le linee di indirizzo definite nel protocollo stesso. Un punto rilevante: viene modificato il ruolo che, nella disposizione di legge, era lasciato all’accordo individuale fra datore e singolo lavoratore, accettando che la contrattazione collettiva possa, anche in sede aziendale, procedere ad una gestione condivisa del lavoro agile. Con quali conseguenze?

Lo smart working, o lavoro agile, come correttamente lo chiama il legislatore italiano nella legge n. 81 del 2017, ha rappresentato per molte imprese un modo per poter affrontare le restrizioni della pandemia senza essere costretti a sospendere completamente l’attività produttiva. Si è trattato di una necessità, imposta, per evidenti ragioni di sanità pubblica, dall’esigenza di una robusta rarefazione dei contatti sociali e favorita dalla disponibilità di fondi pubblici straordinari, dedicati a finanziare varie forme di congedo per quanti non potevano lavorare “da remoto” perché impegnati in mansioni manuali. Naturale che, una volta sperimentata la possibilità di lavorare “da casa”, riesce difficile tornare indietro, anche in ragione del fatto che la riduzione della mobilità sul territorio ha comportato, in certi contesti, un importante risparmio sulle spese di trasporto e, talora, anche un incremento di produttività. Si tratta, dunque, in un momento in cui la fine del lungo periodo di pandemia sembra avvicinarsi sempre più, di provare a rendere stabile questa modalità di lavoro, in maniera tale da consentire ad entrambe le parti (datori di lavoro e lavoratori) di ottenere un vantaggio dall’esperienza trascorsa. In questo senso, si deve registrare come un po’ in tutti i settori, dai metalmeccanici al lavoro pubblico “contrattualizzato”, le organizzazioni sindacali hanno iniziato un confronto per provare a definire quali possano essere i punti condivisi, per rendere stabile il ricorso allo smart working. Non deve quindi stupire se i principali sindacati dei lavoratori (CGIL, CISL, UIL, UGL, CONFSAL, CISAL e financo USB) hanno sottoscritto lo scorso 7 dicembre 2021 alla presenza del Ministro del lavoro un “Protocollo nazionale sul lavoro in modalità agile”, che impegna, dalla parte datoriale, tutte le principali organizzazioni imprenditoriali (da Confindustria a ConfAPI, e poi: Confcommercio, Confesercenti, Confartigianato e CNA, le cooperative, Confagricoltura e Coldiretti, nonché ABI, ANIA, e le maggiori organizzazioni di tanti altri settori industriali e di servizi). Il Protocollo, che si articola in sedici densi articoli, ha ovviamente una portata assai generale, che richiederà una qualche forma di specificazione in sede o nazionale o aziendale (art. 15) e, forse, anche un piccolo intervento statale a sostegno, quantomeno sul piano della semplificazione delle comunicazioni da inviare agli enti di vigilanza. Non mancano, peraltro, previsioni capaci di obbligare già da subito le singole imprese ad integrare le previsioni della già ricordata legge n. 81/ 2017. In questo senso, innanzitutto, si prevede che «l’accordo individuale di lavoro agile sottoscritto tra il datore di lavoro e il lavoratore si adegua ai contenuti della eventuale contrattazione collettiva di riferimento e comunque deve essere coerente con la disciplina di legge e con le linee di indirizzo definite nel presente Protocollo». La previsione è senz’altro rilevante, perché viene a modificare il ruolo che, nella disposizione di legge, era lasciato, invece, all’accordo individuale fra datore e singolo lavoratore, accettandosi così che la contrattazione collettiva possa, anche in sede aziendale, procedere ad una gestione condivisa del lavoro agile. La clausola, quindi, segnala sicuramente un restringimento delle prerogative imprenditoriali, ma, l’affollamento delle sigle che hanno sottoscritto l’accordo dà prova evidente del fatto che la disciplina collettiva presenta vantaggi per tutti, quanto meno sul piano del reciproco affidamento. Ed infatti, una disciplina legislativa troppo “aperta” non solo alimenta il rischio di contenziosi senza fine (come dimostrano già adesso le vicende relative nel settore pubblico al mantenimento del diritto ai buoni pasto per i lavoratori che rimangono a lavorare a casa), ma soprattutto può operare come un freno al ricorso al lavoro da remoto, lasciando intendere al lavoratore che esso comporta la perdita della protezione che altrimenti gli deriverebbe dall’applicazione delle norme della contrattazione collettiva. Del resto, si deve subito aggiungere che su alcune questioni centrali il Protocollo si guarda bene dal prendere una posizione stringente, così quando deve individuare le modalità di organizzazione del lavoro da remoto, ma soprattutto quando si tratta di riconoscere la libertà del lavoratore di poter essere lui a scegliere il luogo dal quale collegarsi al server aziendale. E così, quanto alle modalità di organizzazione del lavoro agile, l’art. 3 del Protocollo appare abbastanza incerto nelle sue scelte quando afferma, al tempo stesso, che «la giornata lavorativa svolta in modalità agile si caratterizza per l’assenza di un preciso orario di lavoro e per l’autonomia nello svolgimento della prestazione nell’ambito degli obiettivi prefissati» (comma 1) e, parimenti (sempre nello stesso comma 1), che il lavoratore è in ogni caso comunque tenuto al «rispetto dell’organizzazione delle attività assegnate dal responsabile a garanzia dell’operatività dell’azienda e dell’interconnessione tra le varie funzioni aziendali». Si tratta, come ognuno può vedere, di due affermazioni che in molti casi faranno fatica a conciliarsi. Più chiare, invece, le norme (commi 2 e 5 dell’art. 3) che stabiliscono che può essere concordata una articolazione «in fasce orarie» e che «in ogni caso» si deve stabilire una «fascia di disconnessione nella quale il lavoratore non eroga la prestazione lavorativa» ed è anche libero di non rispondere alle mail o ai messaggi che gli provengano dai superiori o dai colleghi. A fronte di tanto, l’art. 4, poi, introduce una regola generale di grande portata, poiché si afferma che «il lavoratore è libero di individuare il luogo ove svolgere la prestazione in modalità agile purché lo stesso abbia caratteristiche tali da consentire la regolare esecuzione della prestazione, in condizioni di sicurezza e riservatezza». In alti termini, ferma la necessità di garantire una connessione stabile e sicura con il server aziendale, il lavoratore può scegliere di trasferirsi dove vuole in caso di smart working. È ancora troppo presto per dirlo ma è chiaro che, se l’assetto così definito in sede interconfederale dovesse stabilizzarsi, si potrà aprire in futuro una dinamica nuova, che potrebbe finire per coinvolgere sia la disciplina per i casi di assenza dal lavoro (si pensi alle tante malattie che richiedono lunghi periodi riabilitativi o di convalescenza), sia in prospettiva lo stesso nucleo centrale del contratto collettivo. Ed infatti, la possibilità di lavorare da luoghi lontani dalle grandi città può innescare dinamiche al ribasso, in relazione sia ai minimi retributivi, necessari per vivere a chi si trattiene in luoghi dove i costi immobiliari sono assai inferiori ai contesti urbani, sia alle modalità di organizzazione del lavoro, sviluppando la prassi, già largamente sperimentata nei call-center o nelle tante forme di lavoro “a chiamata”, di un ricorso più ampio all’esternalizzazione di singoli e specifici servizi, ricercando “nella rete” collaboratori occasionali o anche stabili da aggregare di volta in volta al normale ciclo produttivo. Copyright © - Riproduzione riservata

Fonte: https://www.ipsoa.it/documents/lavoro-e-previdenza/amministrazione-del-personale/quotidiano/2022/02/12/smart-working-svolta

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