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Archivio newsLicenziamento per giustificato motivo oggettivo: quali regole si applicano nelle grandi aziende
In caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, per le imprese che superano i 15 dipendenti, trova applicazione l’art. 18 dello Statuto dei lavoratori. In particolare, quando il licenziamento non risulta nullo, ma più genericamente invalido, la sanzione riconosciuta dall’art. 18 è rappresentata dall’annullamento del licenziamento, con la condanna del datore alla reintegrazione del dipendente nel posto di lavoro precedentemente occupato e al pagamento di un’indennità risarcitoria. Inoltre, il datore è obbligato a percorrere un tentativo di conciliazione obbligatorio, preventivo, che dovrà rappresentare, a pena di invalidità, il primo adempimento, anteriore finanche alla stessa comunicazione di licenziamento. Quali regole si applicano invece in relazione al regime delle tutele crescenti?
La tradizionale distinzione tra “grande” e “piccola” azienda, con riferimento alla disciplina dei licenziamenti, è legata alla soglia dei 15 dipendenti, superata la quale è applicato l’art. 18, e permangono differenze di tutela, anche con il regime delle tutele crescenti, in vigore dal 7 marzo 2015. La tutela reintegratoria piena Quella che prima della riforma del 2012 (l. n. 92/2012) era la tutela ordinaria per qualsiasi licenziamento illegittimo per i datori di lavoro con più di quindici dipendenti (reintegrazione e risarcimento integrale del danno con il pagamento di tutti gli stipendi dal licenziamento alla reintegra), è adesso riservata esclusivamente al licenziamento nullo, perché orale o perché irrogato in spregio ai divieti espliciti della legge. La tutela indennitaria Quando invece il licenziamento non risulta nullo, ma più genericamente invalido, la sanzione riconosciuta dal quarto comma dell’art. 18 dello Statuto è rappresentata dall’annullamento del licenziamento, con la condanna del datore alla reintegrazione del dipendente nel posto di lavoro precedentemente occupato e al pagamento di un’indennità risarcitoria commisurata all'ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell'effettiva reintegrazione, dedotto quanto il lavoratore ha percepito, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavorative (c.d. aliunde perceptum), nonché quanto avrebbe potuto percepire dedicandosi con diligenza alla ricerca di una nuova occupazione (c.d. aliunde percipiendum). Il risarcimento del danno non è però integrale, perché come previsto dallo stesso quarto comma, in ogni caso la misura dell'indennità risarcitoria che scaturisce da queste operazioni, non può essere superiore a dodici mensilità della retribuzione globale di fatto. Nella formulazione pensata dalla riforma del 2012, in caso di manifesta insussistenza del giustificato motivo oggettivo, il giudice poteva disporre pure la reintegra. La Corte costituzionale, con due sentenze, ha dapprima eliminato la possibilità, rendendo invece obbligatorio il diritto alla ricostituzione del rapporto di lavoro (sent. 1° marzo 2021, n. 51), per poi eliminare del tutto la richiesta della natura manifesta dell’infondatezza (sent. 19 maggio 2022). Ad oggi quindi la semplice insussistenza del giustificato motivo oggettivo conduce comunque alla reintegra, mentre la tutela indennitaria sembra essere riservata ai casi di violazione di precetti formali, con gli importi riconosciuti a titolo indennitario dimezzati. Il tentativo preventivo di conciliazione La riforma del 2012 ha introdotto un’altra interessante novità, proprio con riguardo ai licenziamenti per giustificato motivo oggettivo disposti dai datori di lavoro che occupano più di quindici dipendenti. In questi casi, ai sensi del modificato art. 7 della legge n. 604/66, il datore è obbligato a percorrere un tentativo di conciliazione obbligatorio, preventivo, che dovrà rappresentare, a pena di invalidità, il primo adempimento, anteriore finanche alla stessa comunicazione di licenziamento, cui dovrà provvedere sin dal momento in cui matura l’intenzione di risolvere il rapporto di lavoro per ragioni organizzative o produttive. Il procedimento, rapido, dovrà necessariamente svolgersi presso la commissione di conciliazione presso l’Ispettorato del lavoro territorialmente competente. Il regime delle tutele crescenti Il D.Lgs. n. 23/2015, nell’ambito del più ampio progetto di riforma noto come Jobs Act, ha introdotto il cosiddetto regime delle tutele crescenti per disciplinare i casi di invalidità dei licenziamenti, con riferimento ai rapporti di lavoro instaurati dal 7 marzo del 2015, data di entrata in vigore del provvedimento. Riservando la tutela reale piena ai soli casi di nullità, l’art. 3 del D.Lgs. n. 23/2015 esclude la possibilità di una reintegra del lavoratore ingiustamente licenziato per ragioni economiche, riservandogli una tutela indennitaria, così che il giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un’indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale, di importo pari a due mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a sei e non superiore a trentasei mensilità. Con due distinte pronunce la Consulta (sentenza 8 novembre 2018, n. 194 per il regime relativo ai licenziamenti illegittimi nel merito; sentenza 24 giugno - 16 luglio 2020, n. 150 per la previsione relativa ai vizi formali e procedurali), ha dichiarato l’incostituzionalità degli articoli 3 e 4 del D.Lgs. n. 23/2015, nella parte in cui legavano rigidamente il calcolo della indennità da riconoscere ad un numero fisso di mensilità, da moltiplicare per gli anni di servizio, restituendo al giudice il compito di individuare in concreto la misura dell’indennità in caso di licenziamento illegittimo, anche in applicazione del regime delle tutele crescenti, nel rispetto dei limiti minimi e massimi previsti dalla legge. Copyright © - Riproduzione riservata