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Pianificazione aziendale: meglio presentare “il” o “i” piani?

La pianificazione aziendale è diventata obbligatoria per legge. I piani aziendali rappresentano un momento di coinvolgimento complessivo dell’organizzazione, che poi è uno dei presupposti fondamentali per la sua utilità e servono a coagulare i consensi dei soggetti il cui appoggio è necessario per l’ottenimento di quei risultati: finanziatori, ma anche clienti, fornitori e dipendenti. Ma è più opportuno presentare piani diversi per scenari diversi, oppure un piano centrato sullo scenario più probabile? Dal punto di vista amministrativo ci deve essere indubbiamente un piano ufficiale, approvato dall’alta direzione, fondamento delle valutazioni e delle azioni future. Sotto il profilo gestionale, le aziende devono necessariamente sviluppare piani alternativi, per scenari diversi, perchè gli shock macroeconomici sono sempre più frequenti.

Con le recenti novità del codice della crisi d’impresa è stata in sostanza inserita la pianificazione obbligatoria per legge, considerando che ogni impresa dovrà disporre di adeguati assetti, idonei a intercettare precocemente lo stato di crisi. Ogni impresa dovrà, quindi, sempre sapere se il suo debito è sostenibile e, di conserva, dovrà nel continuo provvedere ad una attenta pianificazione economico-finanziaria. Del piano di risanamento, poi, il codice della crisi ne estende il raggio di azione e ne approfondisce i contenuti. Il piano aziendale poi è la base per molte valutazioni di bilancio che, in sua assenza, non sarebbero attendibili (rinvio per approfondire ad un mio articolo “Il piano aziendale e i piani specifici quali presupposti per le valutazioni di bilancio”, in Amministrazione & Finanza n. 10/2017). La crescente considerazione del piano aziendale nel nostro sistema normativo emerge d’altronde nello stesso art. 2381, comma 3, c.c., nel quale si prevede che l’esame dei “piani strategici, industriali e finanziari della società” è compito precipuo del consiglio di amministrazione. Praticamente, in ogni ambito, si riconosce quindi formalmente la fondamentale importanza della pianificazione aziendale, postulata nella prassi e nella dottrina fin dal 1920-1930. A partire da questa semplice considerazione, svolgerò di seguito alcune riflessioni tra due approcci che possono tra loro confliggere; il concetto di “piani diversi per scenari diversi” e quello di piano aziendale centrato sullo scenario più probabile”, che dal mio personalissimo punto di vista sembra, in tempi recenti almeno, aver avuto la meglio sul primo approccio. I piani servono a evidenziare cosa fare prima di agire; essi tracciano, quindi, una linea di azione in un ipotetico scenario futuro. Si capisce anche che più scenari futuri si prospettano, più piani servono. Avere più piani per diversi scenari ha certamente un costo. Ci sono sia costi diretti di preparazione che indiretti. Tanti piani possono creare confusione e aumentano il rischio di incoerenze reciproche. Soprattutto la loro numerosità corre il rischio di insinuare entro un’azienda, ma più in generale direi entro un’organizzazione, un rischio di sovraccarico informativo che porta come conseguenza a sottovalutarli o, peggio ancora, a dimenticarli e quindi a rendere inutile lo sforzo compiuto per svilupparli. Poi ci sono i costi diretti di preparazione, che in questo crescente contesto di risorse scarse e di conseguente ricerca dell’efficienza, tanto a livello aziendale, quanto a livello macroeconomico, sembrano distogliere preziose risorse dall’operatività. Diversi piani per diversi scenari, se fatti scrupolosamente e sviluppati in linee di azione coerenti, richiedono acquisizioni di risorse tecniche che possono essere molto specifiche per scenario e che, quindi, saranno inutilizzate in caso di verifica di scenari alternativi. Questa conseguenza stride con quella costante ricerca dell’efficienza. Non solo; qualunque piano in un’azienda ha senso se è stato almeno all’interno comunicato, condiviso, accettato e simulato nella sua realizzazione, altrimenti non serve a niente. Se non si realizzasse quest’ultima condizione essi diverrebbero davvero puri esercizi di stile, sia gestionali, che amministrativi e quindi, inevitabilmente, inutili. Perché un piano serve soprattutto a coordinare azioni complesse, con molti soggetti chiamati ad attuarlo e se queste persone non sanno esattamente cosa fare negli scenari prospettati perché non si sono allenate o, peggio ancora, non sanno neppure che esiste un piano, tanto vale rinunciare a questo approccio. Per cui ci si può porre la domanda del cui prodest impegnare risorse anche cospicue per una attenta fase di prospezione degli scenari e pianificazione delle azioni future. Ovviamente solo uno degli scenari prospettati sarà quello che si verificherà in futuro, e sempre che si sia stati bravi nell’individuarlo, perché come diceva il grande Bardo nell’Amleto “ci sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante tu ne possa sognare nella tua filosofia”. Il vantaggio che io vedo è soprattutto uno, ma essenziale: la rapidità. Infatti, se si verificano certi scenari, anche improbabili, ma comunque prospettati, che richiedono rapidità di azione pena conseguenze certe volte esiziali, averli incorporati in piani e agire quindi di conseguenza, può salvare delle vite. Pensate molto banalmente ai piani di emergenza antiincendio, o comunque di salvataggio in situazioni di pericolo. In molti casi ritardare le azioni necessarie o non disporre delle risorse essenziali, definisce il confine tra la vita e la morte. E per le aziende valgono le stesse considerazioni, fatte ovviamente le debite proporzioni richieste da questa analogia organicistica. E i ritardi che si verificano nel fronteggiare le situazioni di emergenza che scaturiscono da scenari che non erano stati affrontati con un’adeguata pianificazione non derivano solo dallo scarso coordinamento, ma anche dal tempo necessario per acquisire il consenso da parte dell’intera organizzazione. Se tale consenso era stato per tempo acquisito, il piano potrà, almeno in teoria, dispiegarsi immediatamente, quasi come una reazione meccanica a uno stimolo esterno. Oggi più di ieri, la capacità di rapida risposta di fronte alle crescenti turbolenze ambientali stabilisce chi resta dentro il mercato e chi, purtroppo, dovrà uscirne. Per la loro natura di disegno dell’azione futura, si capisce anche che è una forzatura dell’ordine naturale delle cose sviluppare un “unico” piano, come se il futuro fosse già scritto. Certo, di fronte a questa obiezione di fondo si risponde solitamente dicendo che lo scenario futuro prospettato e riassunto in un quadro di ipotesi è quello di “più probabile” verifica e che il piano deve dare forma agli obiettivi voluti dalla direzione, come a dire che esso rappresenta in termini formali ciò che l’azienda “vuole che accada”, ma non necessariamente “ciò che accadrà”, per i limiti imposti dalla nostra condizione di esseri viventi. La giustificazione addotta per supportare questa impostazione è insomma quella del “volere è potere”, ossia che, se si definiscono degli obiettivi e si infonde nell’organizzazione coinvolta la giusta tensione, i giusti incentivi, ciò che abbiamo prospettato diverrà realtà dopo un certo arco temporale. Questa implicita premessa trova radici nella cultura occidentale del primato dell’homo faber sulla realtà che lo circonda, una cultura intrisa di positivismo. In qualche modo parlare di “un piano” e non di “più piani” è una dimostrazione di puro individualismo, quasi come se gli altri non ci fossero. Leggendo e studiando per lavoro di business plan, mi ha sempre colpito che in quei documenti si parla molto poco di concorrenti, delle loro reazioni alle prossime mosse dell’azienda. Nella realtà chiunque sa che avverranno, che ad ogni azione corrisponde una reazione. Ma nella pratica non si fa quasi mai, giustificando razionalmente ciò con l’idea che in un piano si può parlar di noi stessi ma non di altri, il cui pensiero e il cui comportamento futuro non è dato sapere (e più non dimandare!). La comunicazione ai vari stakeholder di un unico piano, che per quanto detto finora sembrerebbe un atto di hybris, di protervia decisionale, però risponde a esigenze pratiche e in qualche modo mira a garantire efficienza e efficacia. Mira all’efficienza sotto due profili, prima accennati. In primis perché fare tanti piani richiede tante risorse, tante persone qualificate soprattutto, che tratteggino i vari scenari futuri e disegnino molteplici piani in funzione delle diverse evoluzioni possibili delle variabili in gioco, e queste persone ovviamente costano; quindi, fare tanti piani implicherebbe razionalmente dotarsi preventivamente delle risorse tecniche e finanziarie necessarie per operare in diversi scenari. Se questa diversità di scenari richiede risorse specifiche, ossia non utilizzabili in caso di verifica di scenari alternativi, si capisce che inevitabilmente un’azienda avrà ampi costi di capacità non sfruttata. E di capacità non sfruttata un’azienda può anche morire, come tanti casi dimostrano. Ma l’unicità del piano risponde anche a esigenze di efficacia. Rappresentando ciò che l’azienda vuole e farà di tutto per ottenerlo, il piano è un potente strumento di comunicazione che serve a coagulare i consensi dei soggetti il cui appoggio è necessario per l’ottenimento di quei risultati: finanziatori in primis, ma anche clienti, fornitori e dipendenti. In certi casi serve a spaventare i concorrenti, assumendo una funzione di deterrenza. Il piano in questa visione serve per informare e, quindi, convincere gli altri, ottenendone l’appoggio. E si capisce che in questo senso si presta a comportamenti molto opportunistici, profilo sul quale torneremo più avanti. La conciliazione tra le due esigenze, fare tanti piani perché il futuro non è scritto e predisporne uno solo per i motivi sopra riassunti, nel concreto avviene con la sensitivity analysis, che però, bene dirlo, è una gentile concessione ai critici fatta dalla convinzione della giustezza dell’unicità del piano. Con essa si vuol dimostrare la “tenuta”, la robustezza, del piano, ossia che i valori pianificati non mutano “molto” anche in caso di variazioni di alcune ipotesi base. Vero è che nella pratica le variazioni simulate in queste analisi sono solo lievi modifiche dell’ipotesi base, scartando a priori gli scenari peggiori, che più propriamente andrebbero definiti “stress test”. Come pure nella pratica è anche vero che queste analisi considerano solo variabili “esogene”, sulle quali l’azienda ha scarsa o nulla capacità di influenza, come il tasso di crescita dell’intero mercato, o il tasso di interesse di mercato, e trascurano invece variabili che più direttamente sono riconducibili all’azione manageriale, come la capacità di ridurre dei costi o di incrementare le quantità vendute. Tra le righe si legge in questo comportamento che le variabili che ricadono sotto il potere dell’azienda e della sua direzione “sicuramente” si evolveranno nella maniera indicata nel piano e che solo fenomeni macroeconomici possono sfuggire al suo controllo. Purtroppo, ritorna il monito che tutto in realtà è collegato, che la riduzione dei costi dipende dalla reazione dei prestatori di fattori produttivi che generano tali costi o che le quantità vendute dipendono dalle contromosse della concorrenza. Ma se assumessimo per valido questo atteggiamento dubitativo, la funzione del piano quale strumento di politica aziendale, di mezzo per convincere gli stakeholder e riceverne il consenso, si scioglierebbe come neve al sole. Siamo di nuovo a quel bivio tra unità e molteplicità dei piani. Il piano oggi è usato soprattutto per convincere gli altri e se un’azienda li vuole convincere, deve essere la prima a essere convinta, a crederci fino in fondo. È un principio basilare della comunicazione, è la nostra natura umana: nessuno ci verrà dietro se ostentiamo dubbi. Serve comunicare obiettivi chiari e coerenti e prospettarli raggiungibili, se vogliamo il supporto degli altri. E gli altri pure ci chiedono questa convinzione: ognuno di noi vuole credere, il nostro animo si rasserena così. E le aziende, che sono organizzazioni di persone che vivono in mezzo ad altre persone, questo lo sanno. Questa riflessione ci fa capire anche come purtroppo molti piani sono infettati da tanto opportunismo. Si comunicano obiettivi e risultati sapendo, forse anche solo nelle pieghe più recondite e inconsce del pensiero, che sono pie illusioni, ma che servono a tenere in vita certe aziende, a ottenere un certo finanziamento, a giustificare certe scelte di bilancio. Il fine supremo della continuità aziendale giustifica i mezzi, direbbe qualcuno. La cosa curiosa è che anche soggetti chiamati a valutarli, verificarli, prenderli a base per giudizi e scelte conseguenti, sanno che questo rischio è concreto e più volte non sollevano obiezioni. Anche qui il fine giustifica i mezzi, si deve pur lavorare anche in futuro e dire “no” certo non facilita. Se il futuro dimostra che quei numeri avevano senso, bene, anzi, ottimo! Quel management e quell’azienda sono stati bravi. Se va male in futuro, a giustificar le perdite si ricorre sempre nel linguaggio manageriale al ritornello del “bieco destino”, del mito del “mercato” che ci ha girato “imprevedibilmente” contro; “la colpa morì fanciulla”, dice l’antico proverbio. Nessuno se la vuol prendere la colpa e le aziende non fanno eccezioni. Poi saranno gli azionisti a decidere le sorti di quel management, in ogni caso. In questo senso vi porto alla riflessione una circostanza ricorrente che questi anni di studio e di pratica mi mettono spesso sotto gli occhi. Quando un piano comunicato con il senno di poi si dimostra irrealistico, normalmente e giustamente lo si sostituisce con un nuovo piano. Ma i casi dove nel nuovo piano si passa a commentare cosa e perché è andato storto del vecchio, nella mia esperienza sono molto rari. Sarei curioso e apprezzerei molto vedere in un bilancio nelle spiegazioni di un impairment test cosa succederebbe dell’avviamento “di oggi” se sostituissi nel piano “di ieri” che ne giustificava il mantenimento, i valori actual rispetto ai valori allora expected. Temo che diverse aziende salterebbero per le perdite che andrebbero imputate retrospetticamente. Molto più semplice, invece, è sostituire al vecchio piano uno nuovo che riesca a convincere ancora gli altri del presunto mantenimento del valore di quell’avviamento, senza accennare a quanto già comunicato in passato. Nonostante questi limiti, il piano unico serve, è indispensabile, essendo richiesto da fior di norme e regolamenti. I principi contabili professionali chiedono che molte valutazioni di bilancio si basino sul “piano approvato” dall’alta direzione. Si possono capitalizzare molti elementi (es. oneri pluriennali diversi, avviamento, imposte anticipate) solo se “il” piano ne prevede la recuperabilità con i futuri ricavi. La dimostrazione al revisore legale del presupposto della continuità aziendale avviene presentandogli “il” piano per il prossimo esercizio. Le procedure di risanamento richiedono la preparazione e la attestazione di “un” piano di risanamento e via discorrendo, passando per i prospetti informativi richiesti in borsa per la quotazione e le operazioni straordinarie sul capitale. Per cui dal punto di vista amministrativo vi deve essere indubbiamente un piano ufficiale, approvato dall’alta direzione e che sia il fondamento delle valutazioni e delle azioni future. Ma sotto il profilo gestionale, che è quello che più importa, le aziende devono necessariamente sviluppare piani alternativi, per scenari diversi, perchè gli shock macroeconomici sono sempre più frequenti. Voglio chiudere questa breve nota con un richiamo alle modalità di preparazione di un piano. La funzione è così essenziale che deve coinvolgere necessariamente l’imprenditore e i suoi dirigenti (o responsabili di area) di vertice. Non si può esternalizzare in toto la pianificazione, non avrebbe senso per quanto sopra detto. Ben venga il consulente ad aiutare, ma non il vero e proprio “pianista” che lavorando in remoto, produce un elegante documento professionale scarsamente condiviso con l’azienda. Se così fosse, come purtroppo accade, si sarebbe certo ottenuto il piano “formale” necessario per la bisogna (le valutazioni di bilancio, il piano di risanamento, ecc.), ma verrebbe meno il ruolo del piano come momento di coinvolgimento complessivo dell’organizzazione, che poi è uno dei presupposti fondamentali per la sua utilità. Copyright © - Riproduzione riservata

Fonte: https://www.ipsoa.it/documents/quotidiano/2023/02/04/pianificazione-aziendale-presentare-il-i-piani

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