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Archivio newsDecreto Lavoro: le nuove misure garantiranno gli obiettivi previsti (anche) dal PNRR?
Per il decreto Lavoro si apre ora la fase parlamentare, che dovrà condurre entro sessanta giorni alla conversione in legge e alle eventuali modifiche del testo. L’obiettivo da centrare consiste, innanzitutto, nell’incentivare la ripresa economica; poi si dovranno, al contempo, organizzare le strutture amministrative dei servizi pubblici per l’occupazione, per far sì che i centri per l’impiego riescano a raggiungere i risultati che sono stati concordati con l’Unione europea. Si tratta di traguardi necessari a consentire l’accesso ad una quota importante dei finanziamenti promessi da Bruxelles con il PNRR, ma assai impegnativi, perché è necessario incrementare di 3 milioni il numero degli occupati. Saranno sufficienti le misure contenute nel D.L. n. 48/2023?
Con la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale è giunta a compimento la prima parte dell’iter legislativo del decreto Lavoro (D.L. 4 maggio 2023, n. 48, “Misure urgenti per l’inclusione sociale e l’accesso al mondo del lavoro”), approvato dal Governo durante la oramai celebre riunione del 1° maggio: si apre ora la fase parlamentare, che dovrà condurre entro sessanta giorni alla conversione in legge e alle eventuali modifiche del testo. L’obiettivo da centrare consiste, innanzi tutto, nell’incentivare la ripresa economica (mediante misure di semplificazione che evitino che l’onda di crescita, conseguente alla fine della pandemia, abbia a rallentare). Si dovranno, al contempo, anche organizzare le strutture amministrative dei servizi pubblici per l’occupazione, per far sì che i 550 centri per l’impiego, presenti nelle 20 regioni italiane, riescano a raggiungere i risultati che sono stati concordati con l’Unione europea. Si tratta di traguardi necessari a consentire l’accesso ad una quota importante dei finanziamenti promessi da Bruxelles con il PNRR (pari a 5 miliardi di euro), ma assai impegnativi, perché l’obiettivo è di incrementare di 3 milioni il numero degli occupati. Si è deciso perciò di mettere mano al grande bacino dei percettori di reddito di cittadinanza, per far sì che l’assistenza sino a qui goduta non diventi una condizione stabile, ma un periodo transitorio, da utilizzare per la realizzazione di uno dei quattro percorsi previsti dal programma GOL - Garanzia per la occupabilità dei lavoratori, chiamato ad estendere a tutti i disoccupati i buoni risultati raggiunti in un recente passato dalla “Garanzia giovani”. Sono tutti obiettivi intermedi, essenzialmente basati sullo sviluppo delle capacità professionali, e tutti finalizzati alla ricerca di una occupazione, stabile, effettiva e (magari!) di qualità. Per raggiungere un traguardo così ambizioso, il decreto Lavoro sdoppia il reddito di cittadinanza, distinguendo tra soggetti non occupabili e occupabili. La distinzione si fonda sulla condizione personale dei percettori del vecchio reddito di cittadinanza, che metteva insieme situazioni di disagio personale (dovuto soprattutto a malattia o invalidità) e di marginalità sociale e professionale. Mentre per i primi il “reddito” si trasforma in un “assegno di inclusione”, per i secondi si crea una nuova misura a carattere transitorio, che prende il nome di “supporto per la formazione e il lavoro” e che si viene ad aggiungere alle indennità di disoccupazione INPS, da tempo irrobustite quanto a durata ed importo (NaSpI, per tutti i lavoratori subordinati e DIS-COLL per i “collaboratori”). La misura introdotta consiste in un assegno di massimo 350 euro mensili, destinato ad essere erogato in un momento successivo all’esaurimento del trattamento ordinario di cui ora si è detto, per far godere ai disoccupati un reddito minimo nel periodo (comunque non superiore a 12 mesi) necessario a partecipare a progetti di formazione o ad altre misure di politica attiva del lavoro. In verità, il compito più gravoso, per questo versante, non sta nella riorganizzazione del sistema del reddito di cittadinanza, ma nello sviluppo delle infrastrutture del sistema nazionale di politiche del lavoro, che è stato fatto oggetto, negli ultimi decenni di continue modifiche, senza mai riuscire a trovare una stabile sistemazione. Ed infatti, i centri per l’impiego furono le prime amministrazioni ad essere state regionalizzate, ben prima che si modificasse la Costituzione in senso federale, ma la loro assegnazione alle province ha finito per paralizzare ogni rinnovamento, negli anni in cui sembrava che questi ultimi enti dovessero essere soppressi. Ora, confermata la permanenza delle province con il referendum costituzionale del 2016 e dopo che finalmente i “navigator” sono stati stabilizzati, si attende che si metta mano ad un sistema informativo unico, atteso già dalla fine degli anni ’90, quando si realizzarono le prime riforme strutturali “del collocamento”. Si tratta, in quest’ultimo caso, di dar vita ad una piattaforma digitale, che raccolga tutti i disoccupati italiani, permettendo di incrociare i dati (anche con quelli custoditi dalle agenzie private), così da consentire che la domanda e l’offerta di lavoro possano incontrarsi. Ed è in questa prospettiva che si è giustificato il commissariamento dell’INPS, che già si avvale di sistemi informatici assai complessi ed evoluti (mentre, ancor oggi i servizi per l’impiego di Calabria, Liguria, Lombardia ed Umbria mantengono sistemi propri). Va da sé che la migliore organizzazione dei servizi per l’impiego poco potrà fare, qualora il ciclo economico venga effettivamente a rallentare nei prossimi mesi; tuttavia, in molti settori si continuano comunque a registrare rilevanti difficoltà nella ricerca di manodopera, anche a bassa qualificazione, di modo che appare indiscutibile che una certa quota dell’offerta di lavoro rimanga insoddisfatta per mancanza di personale e di servizi. Per il resto, fra le numerosissime misure del D.L. n. 48/2023 a carattere amministrativo (che, in altri frangenti, sarebbero state agganciate ai tanti interventi di proroga dei termini), spicca il taglio del cuneo contributivo. In linea con la disciplina varata dal governo Draghi (che aveva assicurato un’esenzione ordinaria pari al 2%) e con la legge di Bilancio 2023, viene innalzato al 6% l’esonero parziale sulla quota dei contributi previdenziali IVS a carico dei lavoratori dipendenti (per il solo secondo semestre 2023 e con esclusione della tredicesima mensilità). Come in passato, l’esenzione è maggiore (ed è quindi pari ora al 7%), se la retribuzione imponibile non supera l’importo mensile lordo di 1.923 euro. Si apportano poi alcune modifiche per quello che riguarda la disciplina dei contratti di lavoro a termine e al decreto Trasparenza del giugno dello scorso anno. Con riguardo a quest’ultima disciplina, la misura introdotta (art. 25 del D.L. n. 48/2023) è di grande efficacia e semplicità perché considera assolto ogni obbligo di comunicazione, che grava in capo al datore che applichi i contratti collettivi, semplicemente consegnando i contratti stessi ai lavoratori (ed anzi basta che i testi dei contratti collettivi nazionali, territoriali o aziendali e degli eventuali regolamenti aziendali, siano messi a disposizione anche solo mediante pubblicazione sul sito web dell’impresa). Con riguardo, invece, alle modifiche alla disciplina del lavoro a termine, si ritorna ad un sistema più snello, che richiede solamente l’indicazione di una causale per consentire ai singoli contratti di superare (comprese le proroghe e i rinnovi) la durata di 12 mesi (nel rispetto però di una durata massima di 24 mesi). Due sole sono le ipotesi (art. 24) nelle quali è possibile il rinnovo, a mente delle previsioni del decreto: esigenze previste dai contratti collettivi (anche aziendali, ove manchino previsioni nei CCNL) e necessità di sostituire altri lavoratori (è da intendersi: temporaneamente assenti, ma con diritto alla conservazione del posto di lavoro). Inoltre, il decreto continua a fare salvi i motivi “di natura tecnica, organizzativa e produttiva” (ma solo per contratti stipulati entro il 30 aprile 2024 e, sembra di poter dire, solo come misura “ponte”, necessaria a consentire il rinnovo delle pattuizioni collettive). Le previsioni in tema di contratti a termine, chiamate a definire un nuovo regime stabile dopo la fine della disciplina straordinaria conseguente al Covid-19, ha stupito più di un osservatore, perché all’inizio era circolata informalmente l’ipotesi di un coinvolgimento delle Commissioni di certificazione, al fine di consentire di poter godere di una durata più lunga di quella altrimenti prevista in via ordinaria. Questa speciale formalità avrebbe finito, però, per scoraggiare non poche imprese (a mente della scarsa diffusione sul territorio nazionale delle commissioni) e comunque avrebbe dato scarse garanzie circa l’effettiva sussistenza di ragioni idonee a giustificare il prolungamento, posto che anche le Commissioni più attente, nel rilasciare la certificazione, rappresentano una situazione di fatto e una valutazione in diritto, che non ha alcun effetto vincolante sul futuro giudizio che i Tribunali siano chiamati ad esprimere, una volta che, interrottosi il rapporto, il lavoratore lamenti di essere stato assunto in violazione dei presupposti di legge. Meglio, dunque, l’adozione di un regime più semplice, nella speranza che non si rinnovino le condizioni di un decennio fa, quando la promessa di una ampia semplificazione finì per tradursi in un incontrollato aumento del contenzioso. Copyright © - Riproduzione riservata