La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 194 del 2018, è intervenuta sulla disciplina del regime delle tutele crescenti, introdotto per assicurare la certezza previsionale delle conseguenze del licenziamento illegittimo, ritenendolo troppo rigido nella sua predeterminazione e perciò inadeguato a garantire una tutela effettiva rispetto alle diverse fattispecie che possono verificarsi. Un intervento, che di fatto ha svuotato l’istituto dell’obiettivo principale della riforma, la certezza del diritto, e creato un sostanziale vuoto normativo. Quali sono le conseguenze? E’ uno dei temi del 12° Forum One LAVORO, organizzato da Wolters Kluwer in collaborazione con Dottrina Per il Lavoro, che si svolge a Modena il 25 maggio 2023.
Il regime delle tutele crescenti, introdotto con il D.Lgs. n. 23/2015, aveva un fine specifico dichiarato ed un sistema di per sé rivoluzionario: assicurare la certezza previsionale delle conseguenze del licenziamento illegittimo, sottraendo, per la prima volta, al sindacato del giudice del lavoro il compito di individuare la misura del risarcimento (neppure la riforma Fornero, che pure aveva “scomposto” il totem dell’art. 18 era giunta a tanto).
Quest’ultima era individuabile attraverso un semplice calcolo aritmetico, moltiplicando l’indennità prevista per legge per gli anni di anzianità di servizio del lavoratore destinatario del provvedimento espulsivo. La Corte Costituzionale ha abbattuto tale impianto, ritenendo l’eccessiva rigidità del meccanismo incapace di soddisfare l’esigenza di effettiva tutela da apprestare, rispetto alle diverse fattispecie che possono verificarsi e causare l’illegittimità del licenziamento (sent. n. 194/2018).
Le tutele crescenti
Il regime delle tutele crescenti è stato introdotto dal D.Lgs. n. 23/2015 e aveva il suo nucleo fondamentale nel meccanismo di predeterminazione della indennità da riconoscere al lavoratore in caso di licenziamento ingiustificato. Nell’ambito dei limiti previsti dalla stessa norma, il calcolo avveniva aritmeticamente, moltiplicando l’importo di due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio. L’obiettivo dichiarato era quello di assicurare la certezza della conoscibilità diretta del rischio, in termini economici, in caso di declaratoria di illegittimità del licenziamento (c.d. firing cost).
L’auspicio era che garantendo tale prevedibilità e sottraendo all’alea dell’esercizio della discrezionalità dei giudici la determinazione delle indennità con le quali sanzionare il licenziamento invalido, potesse essere incentivato il ricorso al contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato. Il metodo aritmetico della predeterminazione, e prevedibilità, ex lege della misura della indennità da corrispondere in caso di licenziamento illegittimo, nucleo essenziale qualificativo della riforma, era di fatto rivoluzionario perché nel tempo sia la legge sui licenziamenti individuali (art. 3 l. n. 604/66), che lo Statuto dei lavoratori (art. 18), e neppure la riforma Fornero (l.n. 92/2012), mai avevano modificato tale momento fondamentale, rilasciando sempre al giudice il compito di individuare in concreto la misura della sanzione per l’invalidità del licenziamento.
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L’intervento della Corte costituzionale
Una modifica così radicale, peraltro intervenuta nell’ambito di un tema particolarmente sensibile come quello dei licenziamenti e del conseguente regime di tutela (non si erano ancora del tutto sopite le dispute intorno alla riforma dell’art. 18, per la prima volta “smembrato” dalla l. n. 92/2012, che ha sostituito alla granitica formulazione statutaria un meccanismo di tutele graduate, eliminando l’automaticità in tutti i casi dell’accesso alla tutela reale), ha suscitato evidentemente l’ennesima disputa tra sostenitori ed avversari della misura, addebitata di violazione di princìpi fondamentali per la eventualità residuale nella quale ha ricondotto la tutela reale, per l’esiguità della misura risarcitoria - rectius, indennitaria - per l’incompatibilità con i princìpi di uguaglianza data dalla circostanza che a fattispecie identiche si potessero applicare norme, e conseguenze, significativamente diverse per il solo elemento del tempo dell’accaduto (le tutele crescenti si applicano ai rapporti di lavoro instaurati dopo il 7 marzo 2015). Tutte questioni che nel volgere di un breve periodo di tempo, sono state rimesse al sindacato di costituzionalità della Corte.
La Corte Costituzionale ha però respinto la maggior parte delle questioni sottoposte. Non è stata ritenuta incostituzionale la compressione delle possibilità di applicazione della tutela reintegratoria, né le differenze di regime per situazioni identiche, determinate soltanto dal momento in cui accadono, sulla scorta della considerazione che un trattamento differenziato applicato alle stesse fattispecie, ma in diversi momenti del tempo, non contrasta di per sé con il principio di uguaglianza, perché il fluire del tempo può costituire un valido elemento di diversificazione delle situazioni giuridiche. Ha trovato invece accoglimento la questione posta con riferimento all’art. 3, co. 1 del D.Lgs. n. 23/2015, per contrasto con gli artt. 3, 4, primo comma, e 76 e 117 Cost., in quanto la norma ha introdotto un regime di tutela contro i licenziamenti ingiustificati ritenuto troppo rigido nella sua predeterminazione e perciò inadeguato a garantire una tutela effettiva rispetto alle diverse fattispecie che possono verificarsi.
Il sindacato della Corte (sent. n. 194/2018) ha ad oggetto non tanto la predeterminazione dell’indennità, quanto piuttosto l’unicità del criterio adottato, tale da realizzare un meccanismo che prefigura misure risarcitorie appiattite da una uniformità avulsa dalle fattispecie concrete, che svuota - è il giudizio che traspare - il concetto stesso di valutazione e reazione dell’ordinamento alla illegittimità e gravità del licenziamento.
La Corte nel dichiarare la fondatezza della questione, ha da un lato riaffermato la specialità del diritto del lavoro “come diritto fondamentale cui il legislatore deve guardare per apprestare specifiche tutele”, pur nell’ambito della propria discrezionalità, in virtù della quale lo stesso legislatore ben può, prevedere un meccanismo di tutela anche solo risarcitorio-monetario (sentenza n. 303 del 2011), purché tale meccanismo si articoli nel rispetto del principio di ragionevolezza.
La
rigidità aritmetica prevista dal D.Lgs. n. 23/2015, sfugge a tale criterio di ragionevolezza perché esprime determinazioni non graduabili in relazione a parametri diversi dall’anzianità di servizio, ma uniforme per tutti i lavoratori con la stessa anzianità. Alla luce di questa ricostruzione il
principio di eguaglianza risulta violato, come affermato dalla Corte, “sotto il profilo dell’ingiustificata omologazione di situazioni diverse”. Ciò che non è ritenuto conforme al dettato costituzionale, quindi, non è la certezza dell’indennità, ma la sua rigidità, che impedisce di attagliare - entro i limiti legali ritenuti coerenti con il dettato costituzionale - una tutela adeguata ad ogni singola posizione.
Identiche considerazioni hanno sorretto una sentenza successiva (Corte Cost. n. 150/2020), che nell’accogliere simili eccezioni di incostituzionalità riferite alla norma, sempre delle tutele crescenti, che disciplina il regime indennitario in caso di violazioni di vizi formali o procedurali, conferma che “l’anzianità di servizio, svincolata da ogni criterio correttivo, è inidonea a esprimere le mutevoli ripercussioni che ogni licenziamento produce nella sfera personale e patrimoniale del lavoratore e non presenta neppure una ragionevole correlazione con il disvalore del licenziamento affetto da vizi formali e procedurali, che il legislatore ha inteso sanzionare. Tale disvalore non può esaurirsi nel mero calcolo aritmetico della anzianità di servizio”.
Conseguenze applicative
L’intervento della Corte non soltanto ha espulso il momento fondamentale della disciplina, ma ha di fatto svuotato del tutto quello che era l’obiettivo basilare dell’intervento di riforma: la
garanzia della certezza del diritto, assente per effetto del sostanziale
vuoto normativo venutosi a creare dopo la dichiarazione di incostituzionalità delle norme in discorso. Sorge dunque la necessità di scongiurare tale horror vacui.
Sul punto, la sentenza n. 194/18 opera un esplicito rinvio all’art. 8 della legge n. 604/66 ed all’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, quali esempi, vigenti ed attuali, cui attingere per l’individuazione della indennità tra il minimo ed il massimo previsto dal D.Lgs. n. 23/2015. Criteri che garantiscono la soddisfazione della “esigenza di scrutinare in modo accurato l’entità della misura risarcitoria e di calarla nell’organizzazione aziendale”, avuto riguardo al numero dei dipendenti occupati, dimensioni dell’attività economica, comportamento e condizioni delle parti, unitamente alla anzianità di servizio.
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Fonte: https://www.ipsoa.it/documents/quotidiano/2023/05/19/regime-tutele-crescenti-lavoro-riforma-progress