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Archivio newsLicenziamenti: cosa cambia dopo gli interventi della Corte Costituzionale e della Cassazione
Dopo gli interventi del Legislatore sui licenziamenti, con le riforme del 2012 e del 2015, anche la Corte Costituzionale e la Corte di Cassazione hanno affrontato la materia ampliando le tutele dei lavoratori raggiunti da licenziamento illegittimo per giustificato motivo oggettivo o per motivo disciplinare. In particolare, per la Consulta le tutele non possono essere agganciate, unicamente, al numero dei dipendenti, atteso che, imprese con grandi fatturati, possono avere in carico un numero limitato di persone, oltre che lavoratori con rapporti riconducibili all’area dell’autonomia. Il tema verrà trattato durante il Master online organizzato da Wolters “Le procedure per il licenziamento individuale e collettivo, al via dal 26 settembre.
Nell’ultimo decennio il Legislatore è intervenuto, più volte, a regolamentare la materia dei licenziamenti: è sufficiente pensare alla legge n. 92/2012, al D.L.vo n. 23/2015 e, sia pure marginalmente, ad articolo del D.L.vo n. 104/2022 ove è stata approntata una specifica tutela per il lavoratore licenziato per fatti riconducibili direttamente o indirettamente ad un comportamento ritorsivo del datore di lavoro, strettamente correlato all’esercizio, da parte del dipendente dei propri diritti scaturenti dalla normativa sulla trasparenza nel rapporto di lavoro. I rilievi giuridici e politici hanno portato la Consulta e la Magistratura di legittimità ad interessarsi più volte della materia innovata. Qual è l’impatto degli interventi della Corte Costituzionale e della Corte di Cassazione Gli interventi correttivi della Corte Costituzionale e quelli della Corte di Cassazione non hanno ripristinato il testo originario contenuto, prima delle riforme del 2012 e del 2015, nell’art. 18 della legge n. 300/1970, ma hanno ampliato le tutele dei lavoratori raggiunti da licenziamento illegittimo per giustificato motivo oggettivo o per motivo disciplinare. Gli interventi normativi hanno riguardato le imprese dimensionate oltre le quindici unità (ed oltre le cinque, se agricole) ed hanno, sostanzialmente, tenuto fuori le piccole aziende (fatto salvo l’intervento operato dal D.L.vo n. 23/2015) sulla indennità di natura risarcitoria. Il discorso non è sfuggito alla Consulta che si è resa ben conto che le tutele non possono essere agganciate, unicamente, al numero dei dipendenti, atteso che, imprese con grandi fatturati, possono avere in carico un numero limitato di persone, oltre che lavoratori con rapporti riconducibili all’area dell’autonomia. É ciò che si evince dalla sentenza 22 luglio 2022, n. 183 con la quale la Corte Costituzionale, pur ritenendo inammissibile la questione portata al proprio esame, in quanto le venivano richieste “ineludibili valutazioni discrezionali che, proprio perché investono il rapporto tra mezzi e fine, non possono competerle”, ha invitato la Camere a riconsiderare la disciplina, prospettando, in caso di inottemperanza, un proprio intervento pur all’interno dei limiti posti dalle norme esistenti. È passato più di un anno ma la questione non sembra essere all’ordine del giorno dei lavori parlamentari. Licenziamento disciplinare Fatta questa breve, doverosa premessa, ritengo opportuno effettuare un breve “excursus” sulle norme modificatrici dell’originario art. 18, alla luce dei vari interventi finora registratisi per effetto sia della Consulta che della Corte di Cassazione. Nel 2012, in piena crisi economica, seguendo gli “input” del mondo imprenditoriale, di alcune parti della dottrina e della Banca Centrale Europea che raccomandava “una accurata revisione delle norme che regolano l’assunzione ed il licenziamento dei dipendenti”, fu approvata la legge 28 giugno 2012 n. 92 che conteneva una serie di misure concernenti il mercato del lavoro e, con alcune di queste, si pose mano alla revisione dell’articolo 18 della legge n. 300/1970 ove, ferme restando le tutele reintegratorie in ordine ai recessi nulli perché in contrasto con la legge (periodo protetto nella maternità, entro l’anno dal matrimonio, ecc.), discriminatori, ritorsivi, motivo illecito determinante, o adottato in forma orale e, quindi inefficace, si interveniva, prevedendo la possibilità del risarcimento indennitario, sul licenziamento disciplinare e su quello per giustificato motivo oggettivo. Vale la pena di ricordare che, in caso di recesso nullo, la reintegra del lavoratore, accompagnata dal risarcimento del danno subito, pari ad una indennità commisurata sull’ultima retribuzione globale di fatti per tutto il periodo “di non lavoro”, detratto “l’aliunde perceptum”, e comunque, non inferiore alle cinque mensilità, oltre al versamento dei contributi previdenziali ed assistenziali, colpisce tutti i datori di lavoro a prescindere dal numero degli occupati e riguarda anche il personale con qualifica dirigenziale. I lavoratori, in luogo della reintegra, possono risolvere il rapporto di lavoro con una ulteriore indennità pari a quindici mensilità. In ogni caso, senza entrare nel merito dell’art. 18 nella sua interezza ritengo opportuno soffermarmi su alcuni punti critici che sono stato oggetto di particolare attenzione sia da parte della giurisprudenza che da parte della dottrina. Mi riferisco al licenziamento disciplinare, laddove la reintegra con la corresponsione di una indennità risarcitoria dalla estromissione fino al giorno della ripresa del lavoro, con un tetto fissato a dodici mensilità, dedotto sia l’eventuale percepito o quello che avrebbe potuto percepire cercando una nuova occupazione in linea con la propria professionalità, è prevista a fronte di due ipotesi: a) insussistenza del fatto contestato; b) perchè il fatto non rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili. Si tratta di due fattispecie che, lungi dall’essere chiare, hanno diviso sia la Magistratura che la dottrina, in quanto (con riferimento alla prima) si era ritenuto sufficiente l’avvenuto accadimento di un fatto, poi contestato, per escludere la reintegra nel posto di lavoro. La questione è stata, in un certo senso risolta, dalla Suprema Corte allorquando ha sottolineato come la tutela reintegratoria trovi applicazione tutte le volte in cui, pur in presenza di un fatto accaduto, se ne palesi la sua liceità (Cass. 23 maggio 2019, n. 14054). Tale decisione ha superato quella che nel 2014, la n. 23699, ripresa dal comma 2 dell’art. 3 del D.L.vo n. 23/2015, si riferiva alla sussistenza o alla insussistenza del fatto materiale che aveva portato al licenziamento, senza la previsione di qualsiasi correlazione sia con il codice disciplinare che con il contratto collettivo. Per quel che riguarda, invece, la fattispecie sub b), lungi dal promuovere indirizzi uniformi, la stessa Cassazione ha oscillato tra due indirizzi ove il primo prevede una stretta correlazione tra il fatto contestato e la specifica sanzione conservativa prevista dal contratto collettivo e l’altra, che si può definire “più orientata”, ove la Corte prende atto che in molti contratti ed accordi collettivi siano presenti, sotto l’aspetto disciplinare, norme di chiusura a formulazione generale riassuntive di ipotesi sostanzialmente uguali a quelle definite in maniera precisa. Anche qui, la Cassazione ha avuto un indirizzo non uniforme, pur se nel corso del 2022, sembra essersi affermato il principio interpretativo più largo, nel rispetto delle parti sociali che hanno introdotto formule valutative abbastanza generali, talora accompagnate anche da aggettivi qualificativi della mancanza stessa (Cass., 11 aprile 2022, n. 11665). La Corte Costituzionale è, invece, intervenuta, con la sentenza n. 59 del 1° aprile 2021, sul secondo periodo del comma 7 dell’art. 18 ove, in presenza di una manifesta insussistenza del fatto contestato il giudice poteva, in alternativa alla reintegra, applicare una sanzione di natura economica. La Consulta ha abrogato la norma per irragionevolezza e mancanza di indicazione dei criteri per l’esercizio del potere alternativo di corresponsione di una indennità al posto della reintegra, ritenendo che nel caso di specie ci fosse una disparità rispetto alla casistica ove viene in risalto l’insussistenza dell’atto contestato. Con una decisione successiva, la n. 125 del 19 maggio 2022, la Corte Costituzionale ha altresì cancellato il riferimento al carattere manifesto dell’insussistenza del fatto a fini della reintegra. Uscendo dal discorso relativo alle criticità rinvenibili nell’art. 18 riformato dalla legge n. 92/2012 occorre ricordare come il Legislatore, riformando l’art. 7 della legge n. 604/1966, abbia previsto il tentativo obbligatorio di conciliazione per i licenziamenti per giustificato motivo oggettivo per i datori di lavoro dimensionati oltre i quindici dipendenti e per quelli del settore agricolo con più di cinque unità, con un iter che parte dalla intenzione del datore di procedere nel recesso, abbastanza veloce e ben definito dalla circolare n. 3/2013 del Ministero del Lavoro, che viene radicato presso la commissione provinciale di conciliazione istituita presso ogni Ispettorato del Lavoro, competente per territorio: in caso di raggiungimento di un accordo (presumibilmente, con incentivi per l’esodo) al lavoratore viene riconosciuta anche l’indennità di NASPI. Questo strumento che, pure, positivamente, aveva dato i propri risultati, con il D.L.vo n. 23/2015 risulta essere relegato unicamente ai recessi per giustificato motivo oggettivo dei lavoratori dipendenti dalle medesime imprese assunti prima del 7 marzo 2015, essendo stato sostituito dal tentativo facoltativo di conciliazione che, dopo l’intervento sugli indennizzi operato dalla sentenza della Consulta n. 194/2018, ha perso, qualora ne avesse avuto, molto del proprio gradimento. Con il D.L.vo n. 23/2015 prosegue l’opera di revisione dell’art. 18 e si sceglie un’altra via rispetto a quella seguita nel 2012: ai lavoratori (operai, quadri, impiegati ma non dirigenti) assunti a partire dal 7 marzo del 2015, a prescindere dai limiti dimensionali dell’impresa, in caso di licenziamento illegittimo per giusta causa, giustificato motivo oggettivo e giustificato motivo soggettivo si applica, al posto della reintegra, una tutela risarcitoria strettamente correlata all’anzianità aziendale già prefissata dalla norma. Il giudice non deve far altro che applicarla. Per la verità, sono sempre oggetto di reintegra (art. 2) con riconoscimento di una indennità risarcitoria correlata all’ultima retribuzione utile ai fini del calcolo del TFR, i recessi discriminatori ex art. 15 della legge n. 300/1970, nulli perché contrari ad una norma imperativa di legge, orali o con difetto di giustificazione relativo alla disabilità fisica o psichica del lavoratore, nonché (art. 3) quelli intimati per giustificato motivo soggettivo o giusta causa in cui sia stata dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato, rispetto al quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento. Licenziamenti collettivi La riforma ha effetti anche sui licenziamenti collettivi con una differenziazione, in caso di licenziamento e conseguente impugnazione (ad esempio, per violazione dei criteri di scelta) tra chi è stato assunto prima del 7 marzo 2015 che, in caso di vittoria, ha diritto alla reintegra, alla indennità risarcitoria ed alla relativa contribuzione, con la possibilità di rinunciare al posto previo pagamento di ulteriori quindici mensilità, e chi è stato assunto a partire dalla suddetta data, che ha diritto unicamente al pagamento di una indennità risarcitoria correlata all’anzianità aziendale (magari integrata dal giudice con altri criteri, secondo quanto previsto dalla Consulta), senza alcuna reintegrazione. La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 194 dell’8 novembre 2018 è intervenuta sulla materia affrontando diverse questioni affermando che: a) é legittimo che il Legislatore preveda due sistemi diversi in materia di licenziamenti individuali; b) non è legittimo il criterio che riconosce, a fronte di un licenziamento ingiustificato, una indennità correlata alla sola anzianità aziendale. Ed è proprio su quest’ultimo punto che occorre soffermarsi: il criterio dell’anzianità aziendale originario (due mensilità all’anno partendo da una base di quattro fino ad un massimo di ventiquattro) era stato già innalzato dalla legge 9 agosto 2018 n. 96 di conversione del “Decreto Dignità” (D.L. 12 luglio 2018, n. 87) e portato a due mensilità all’anno partendo da una base di sei fino a trentasei (quello delle piccole imprese e delle organizzazioni di tendenza è, ora, come risulta dal computo previsto dall’art. 9, di tre mensilità, partendo dalla base di una, fino ad un massimo di sei). Secondo la Consulta il criterio adottato dal Legislatore non è assolutamente sufficiente in quanto non tiene conto che il recesso illegittimo dipende da una pluralità di fattori che il giudice è tenuto a valutare: il criterio dell’anzianità aziendale, seppur importante, può essere integrato da altri criteri già elencati nell’art. 8 della legge n. 604/1966 (numero dei dipendenti occupati, dimensioni dell’impresa, comportamento e condizioni delle parti).
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