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Archivio newsContrattazione collettiva e incremento dei premi di produttività: binomio vincente per la crescita delle imprese?
Al 15 settembre, erano 88.733 i contratti collettivi complessivamente depositati, di cui solo 14.630 attivi: di questi, 12.426 riguardano contratti aziendali e 2.204 contratti territoriali. Inoltre, sono 11.688 gli accordi aziendali attivi che si propongono di raggiungere obiettivi di produttività. E’ quanto si apprende dal Report sull'andamento dei premi di produttività, pubblicato dal Ministero del Lavoro. Cosa possiamo apprendere da questa “fotografia” dell’attuale sistema produttivo italiano? I dati sembrano restituire un panorama statico, dove risulta ancora modesta l’influenza della contrattazione di produttività. E’ necessario un cambio di passo affinchè le imprese possano competere anche sul piano internazionale.
Uno dei problemi del sistema produttivo italiano resta quello della carenza di informazioni circa i fenomeni collettivi, poiché, non appena ci si allontana dai contratti di categoria sottoscritti dalle organizzazioni di maggiori dimensioni, il panorama si fa incerto e, talora, anche confuso. Il dato assume particolare rilievo, innanzi tutto, quando si tratta di verificare, come prevede ora la direttiva europea sul salario minimo, la diffusione stessa della contrattazione collettiva, al fine di verificare quanti siano i lavoratori per i quali manchi un meccanismo di determinazione effettivamente bilaterale della retribuzione. Ma esso rileva anche quando si debba verificare in concreto, attraverso la concreta applicazione del contratto, quale sia il grado di rappresentatività dei sindacati di più modeste dimensioni. A questa lacunosa conoscenza, dopo anni di attesa, sembra essersi finalmente posto riparo grazie alla collaborazione che l’INPS ha saputo prestare a beneficio dei protagonisti del sistema delle relazioni industriali, dopo che a ogni singolo contratto collettivo è stato attribuito dei codici numerici di riconoscimento, così da consentire di ricavare dati molto precisi circa l’applicazione dei singoli accordi sindacali dalle denunzie mensili che l’impresa è tenuta a trasmettere all’istituto previdenziale. Ma le carenze non si fermavano qui perché ad essere interessata ad una maggiore conoscenza della realtà in termini quantitativi non è solo la quota di lavoratori che si collocano alla base della scala retributiva, ma anche quanti al contrario sono occupati in imprese che manifestano un maggiore dinamismo e che affiancano alla contrattazione nazionale anche una quota di salario pattuita a livello aziendale. Per rimediare a questa limitata accessibilità ai dati descrittivi dei fenomeni, il Jobs Act ha stabilito così (art. 14 D.Lgs. n. 151/2015 e d.i. 25 marzo 2016) che possano riconoscersi benefici contributivi o fiscali (o altre agevolazioni) solo alle imprese che provvedano a depositare presso il sistema dell’articolazione territoriale del Ministero del Lavoro (gli “ispettorati”) i contratti collettivi aziendali stipulati in tal senso. Ed è proprio raccogliendo questi dati che qualche giorno fa è stato pubblicato dal Ministero un Report sull'andamento dei premi di produttività, che fotografa una serie di dati, relativi sia al tipo di vantaggio riconosciuto ai lavoratori, sia alla durata degli incentivi. Si viene così a scoprire che, alla data del 15 settembre, erano 88.733 i contratti collettivi complessivamente depositati, ma che di questi solo 14.630 costituiscono contratti tuttora attivi (e di questi, 12.426 sono riferiti a contratti aziendali e 2.204 a contratti territoriali). Gli obiettivi perseguiti, peraltro, divergono abbastanza, poiché sono 11.688 gli accordi aziendali attivi che si propongono di raggiungere obiettivi di produttività, mentre sono 9.020 che mirano al raggiungimento di tetti di redditività, e 7.300 sono quelli che descrivono il target in termini di qualità. Solo 1.508 accordi aziendali prevedono, poi, un piano di partecipazione e 8.659 introducono o confermano misure di welfare aziendale. Come era facile prevedere si rileva anche un fortissimo divario territoriale perché il 74% del totale dei contratti depositati, riguardano il Nord, mentre la quota restante si divide fra un 17% per le regioni del centro, cosicché al Sud resta un modesto 9%. L'analisi per settore di attività economica, infine, evidenzia come il 59% dei contratti depositati sia riferito ai servizi, il 40% all'industria e l'1% all'agricoltura. Il Ministero rilascia anche alcuni dati in ordine alle dimensioni delle imprese interessate, ma da essi non si riesce con sicurezza ad individuare quanta parte dei lavoratori italiani siano effettivamente interessati dalla contrattazione collettiva “di secondo livello”, come si usa dire. Nello stesso senso non si deve dimenticare che i dati registrano solo le ipotesi nelle quali sia richiesto un beneficio allo Stato, di modo che la quota di retribuzione presa a riferimento sembra interessare di più i lavoratori di medio-basso reddito, che non i vertici aziendali o società multinazionali. Pur in assenza di questi valori, i dati sembrano restituire un panorama statico, dove ancora modesta è l’influenza della contrattazione di produttività, mentre appare evidente come la crescita economica non possa prescindere da una correlata azione di redistribuzione degli utili: con l’evidente risultato che, ove modesta sia la quota dei lavoratori interessata a questo tipo di azioni, ancor più modesto sarà il numero delle imprese che effettivamente riescono a competere sul piano internazionale. Copyright © - Riproduzione riservata