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Archivio newsLicenziamento per GMO e tentativo di ricollocazione del lavoratore: gli obblighi per il datore di lavoro
L’onere relativo al tentativo di ricollocazione del lavoratore spetta al datore di lavoro, il quale dovrà, previamente alla decisione di licenziare il lavoratore per giustificato motivo oggettivo, fornire la prova circa l’impossibilità di ricollocazione del dipendente, in quanto requisito di legittimità del recesso datoriale. Il primo tentativo di ricollocazione dovrà riguardare mansioni riconducibili allo stesso livello e categoria legale di inquadramento delle ultime effettivamente svolte. In pratica, una rimodulazione delle mansioni a livello orizzontale. Una volta dimostrata l’impossibilità, da parte del datore di lavoro, alla ricollocazione, dovrà essere il lavoratore a provare il contrario. Quali sono gli orientamenti giurisprudenziali in materia?
In caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo (GMO), una delle verifiche preliminari, richieste dalla giurisprudenza, è l’aver valutato la ricollocazione del lavoratore all’interno della propria struttura. Infatti, tale obbligo, preventivo alla procedura espulsiva, non proviene da una norma di legge né, tantomeno, da un vincolo previsto dalla contrattazione collettiva, ma da una regola di condotta voluta dalla giurisprudenza che, soprattutto negli ultimi anni, è intervenuta con varie sentenze di legittimità che hanno incardinato questo elemento nel procedimento di licenziamento per giustificato motivo oggettivo. Ricollocazione del lavoratore: gli obblighi per il datore di lavoro Secondo quanto dichiarato dalla Corte di Cassazione (ordinanza n. 1386 del 18 gennaio 2022), la previa verifica del reimpiego del lavoratore in mansioni diverse, per quanto inespresso a livello normativo, trova giustificazione sia nella tutela costituzionale del lavoro che nel carattere necessariamente effettivo e non pretestuoso della scelta datoriale, che non può essere condizionata da finalità espulsive legate alla persona del lavoratore. In pratica, il licenziamento dovrà essere l’estrema ratio per il datore di lavoro, propedeutico alla verifica circa la possibilità di ricollocare il lavoratore in posizioni compatibili con le proprie capacità e professionalità possedute. Qualora non si proceda a tale verifica, il motivo posto a giustificazione del licenziamento potrà ritenersi insussistente. (Cassazione, sentenza n. 5777 del 10 giugno 1998) L’onere al tentativo di ricollocazione del lavoratore è in capo al datore di lavoro, il quale dovrà, previamente alla decisione di licenziare il lavoratore per motivi oggettivi, fornire la prova circa l’impossibilità di repêchage del dipendente, in quanto requisito di legittimità del recesso datoriale. Ciò significa che il datore di lavoro ha l'onere di provare che al momento del licenziamento non sussiste alcuna posizione di lavoro analoga a quella soppressa per l'espletamento di mansioni equivalenti; quel che rileva è, in altri termini, l'impossibilità di adibire utilmente il lavoratore in mansioni diverse da quelle che prima svolgeva, tenuto conto della organizzazione aziendale esistente all'epoca del licenziamento e della capacità professionale in capo al lavoratore. Nella valutazione della possibile ricollocazione del dipendente, prima che lo stesso sia licenziato per giustificato motivo oggettivo, il datore di lavoro deve conteggiare anche quelle posizioni che, pur ancora ricoperte, saranno disponibili entro un arco temporale prossimo alla data del recesso (Cassazione, sentenza n. 12132 dell’8 maggio 2023). Ragion per cui la valutazione non deve essere cristallizzata al momento del licenziamento, ma dovrà riguardare anche quelle posizioni di cui è imminente la disponibilità. D’altra parte, la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 35225 del 30 novembre 2022, ha evidenziato che sebbene non sussista un onere del lavoratore di indicare quali siano i posti disponibili in azienda ai fini del repêchage, tuttavia, una volta accertata, anche attraverso presunzioni gravi, precise e concordanti tale impossibilità, la mancanza di allegazioni del lavoratore circa l’esistenza di una posizione lavorativa disponibile vale a corroborare il descritto quadro probatorio. In definitiva, una volta dimostrata l’impossibilità, da parte del datore di lavoro, alla ricollocazione, dovrà essere il lavoratore a provare il contrario. Il tentativo di ricollocazione dovrà essere necessariamente allargato alle aziende appartenenti allo stesso gruppo del datore di lavoro qualora sussista una situazione che consenta di ravvisare un unico centro di imputazione del rapporto di lavoro. (Cassazione n. 31519 del 3 dicembre 2019) Tale situazione è riconosciuta allorquando si riveli l'esistenza di alcuni requisiti essenziali, quali: a. unicità della struttura organizzativa e produttiva; b. integrazione tra le attività esercitate dalle varie imprese del gruppo e il correlativo interesse comune; c. coordinamento tecnico e amministrativo-finanziario tale da individuare un unico soggetto direttivo che faccia confluire le diverse attività delle singole imprese verso uno scopo comune; d. utilizzazione contemporanea della prestazione lavorativa da parte delle varie società titolari delle distinte imprese, nel senso che la stessa sia svolta in modo indifferenziato e contemporaneamente in favore dei vari imprenditori. Come si svolge il tentativo di ricollocazione Il primo tentativo di ricollocazione dovrà riguardare mansioni riconducibili allo stesso livello e categoria legale di inquadramento delle ultime effettivamente svolte. In pratica, una rimodulazione delle mansioni a livello orizzontale. Detta riorganizzazione potrà avvenire anche senza alcuna condivisione con il lavoratore. Infatti, il datore di lavoro potrà “ordinare” il cambio delle mansioni, che dovranno essere riconducibili allo stesso livello e categoria legale delle ultime effettivamente svolte (articolo 2113 c.c., comma 1). Importante sarà, in questo caso, la declaratoria e la classificazione del personale operata dai contratti collettivi. Nessuna perdita ci dovrà essere da un punto di vista retributivo. Qualora il datore di lavoro non riesca a rivedere le mansioni orizzontalmente, potrà valutare un riposizionamento in mansioni anche inferiori. Riposizionamento che sarà più complicato qualora le ragioni della modifica delle mansioni siano dovute alla parziale inidoneità del lavoratore, in quanto oltre alla ricerca di mansioni adeguate alla professionalità del lavoratore, si dovrà guardare anche la residuale capacità lavorativa, restringendo oltremodo tale ricerca a quelle attività compatibili con la ridotta idoneità allo svolgimento di prestazioni lavorative. La ricollocazione del lavoratore a mansioni inferiori, rispetto a quelle possedute, dovrà essere, infatti, avallata da un accordo individuale da sottoscrivere in una “sede protetta” e cioè in una delle sedi previste dal quarto comma, dell’art. 2113 del codice civile. Queste sono, essenzialmente: • la Commissione di conciliazione, presso Ispettorato territoriale del Lavoro (attraverso la procedura prevista dagli articoli 410 e 411 del c.p.c.); - la “Sede sindacale” (con la procedura prevista dall’articolo 410 c.p.c.); - la Commissione di certificazione, in funzione conciliativa (prevista dall’articolo 76 e ss., del decreto legislativo n. 276/2003); - la negoziazione assistita (prevista dall’articolo 2-ter del D.L. n. 132/2014, convertito in L. n. 162/2014, così come introdotto dal D.Lgs. n. 149/2022). Solo al termine di questo iter di ricerca, il datore di lavoro potrà decidere, in caso di risultato negativo, la risoluzione dal rapporto di lavoro per licenziamento per giustificato motivo oggettivo. Ricordo che secondo quanto stabilito dalla Corte di Cassazione, con la sentenza n. 18556 del 10 luglio 2019, il licenziamento è legittimo anche qualora non si sia proceduto alla ricollocazione del lavoratore, in considerazione del fatto che pur a fronte di adattamenti organizzativi nel luogo di lavoro, astrattamente possibili, questi avrebbero comportato un onere finanziario sproporzionato alle dimensioni e alle caratteristiche dell'impresa; ovvero, avrebbero aggravato le condizioni di lavoro dei colleghi. Concludo con una recente sentenza del Tribunale di Lecco (sentenza n. 159 del 31 ottobre 2022), la quale ha affermato che la prova della sopravvenuta inutilità del lavoratore non può arrestarsi alla mera impossibilità del repêchage ma il datore di lavoro è tenuto ad accertare che non sia possibile sottoporre il lavoratore ad un percorso di aggiornamento professionale che lo renda nuovamente idoneo alle mansioni per le quali era stato assunto. Con questa sentenza, che ricordo essere solo di merito e quindi suscettibile di revisione da parte della Corte di Cassazione, il giudice pone un altro tassello alquanto complicato da dimostrare e cioè che il datore di lavoro dovrebbe, per concludere negativamente la ricollocazione del lavoratore, dimostrare che anche con un percorso di formazione fornito a quest’ultimo, non vi siano posizioni disponibili in azienda.
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