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Archivio newsParità di genere: c’è una reale tutela della sicurezza nei luoghi di lavoro?
Nell’ottica della sicurezza sul lavoro, le leggi sulla parità di genere non risparmiano solenni dichiarazioni d’intenti: garantire l'uniformità della tutela delle lavoratrici e dei lavoratori attraverso il rispetto dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, anche con riguardo alle differenze di genere è tra le finalità del D.Lgs. n. 81/2008; contemplare l’obbligo indelegabile del datore di lavoro di valutare tutti i rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori e di porre l’accento proprio sui rischi riguardanti le lavoratrici in stato di gravidanza, nonché quelli connessi alle differenze di genere è tra le norme più importanti del TUSL. Ma come mai nella giurisprudenza della Cassazione penale sul TUSL è arduo rintracciare la parità di genere? Ne dobbiamo dedurre una generalizzata disattenzione anche da parte degli organi di vigilanza? Ma qualche nota, a suo modo positiva, c’è.
Parità o disparità di genere? Nell’ottica della sicurezza sul lavoro, verrebbe da rispondere “parità”, visto che le leggi in materia non risparmiano solenni dichiarazioni d’intenti. Tra le finalità perseguite dal D.Lgs. n. 81/2008, fa spicco quella di garantire l'uniformità della tutela delle lavoratrici e dei lavoratori attraverso il rispetto dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, anche con riguardo alle differenze di genere (art. 1, comma 1). E svetta la norma più importante del TUSL: quella che contempla l’obbligo indelegabile del datore di lavoro di valutare tutti i rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori, e che ha cura di porre in evidenza proprio i rischi riguardanti le lavoratrici in stato di gravidanza, nonché quelli connessi alle differenze di genere (art. 28, comma 2, lettera a).C’è un però: come mai nella giurisprudenza della Cassazione Penale sul TUSL è arduo rintracciare la parità di genere? È tutto dire che in anni e anni di sentenze sono rari i casi affrontati al proposito. Come il caso del titolare di uno studio odontotecnico che aveva alle proprie dipendenze una donna con mansioni di assistenza clienti. La sentenza della Cassazione 27 settembre 2022, n. 36538 ne conferma la condanna per la violazione dell’art. 28, comma 2, lett. a), D.Lgs. n. 81/2008, per non aver elaborato un congruo documento di valutazione dei rischi, omettendo di valutare i rischi per la sicurezza e la salute delle lavoratrici, in particolare quelli derivanti dall’esposizione ad agenti fisici, chimici o biologici, processi o condizioni di lavoro di cui all'allegato C del D.Lgs. n. 151/2001. Giustificazione addotta dall’imputato: nello studio non erano presenti lavoratrici in età fertile. Replica della Cassazione: la circostanza che i rischi non siano attuali, in quanto manca tra il personale una donna in gravidanza, non esime il datore di lavoro dalla valutazione imposta; né è consentito addurre una presunta infertilità del personale dipendente dovuta all'età, in quanto le misure per la tutela della sicurezza e della salute delle lavoratrici durante il periodo di gravidanza e fino a sette mesi di età del figlio si applicano altresì alle lavoratrici che hanno ricevuto bambini in adozione o in affidamento, fino al compimento dei sette mesi di età. Come non chiedersi a questo punto se essere ottimisti o realisti. Ne dobbiamo dedurre un’osservanza sistematica del TUSL in materia, o non piuttosto - temo - una generalizzata disattenzione da parte degli organi di vigilanza e dell’autorità giudiziaria? E non solo. Oggi come oggi ritengo arduo contare, per giunta in rapporto a rischi sotto più aspetti tanto a lungo così trascurati, sull’opera dei garanti della sicurezza: un datore di lavoro titolare dell’indelegabile obbligo di valutazione dei rischi, ma individuato a prescindere dalla competenza tecnico-scientifica, almeno per ora in attesa di un Accordo Stato-Regioni pur promesso per il 30 giugno 2022; un RSPP tenuto, sì, a segnalare le misure di prevenzione contro tutti i rischi, ma a dire della Suprema Corte esente dall’obbligo di verificarne l’effettiva attuazione; un RLS - in questi giorni al centro dell’attenzione - largamente sprovvisto dei mezzi e delle risorse indispensabili per sottoporre a verifica le informazioni e le valutazioni espresse dal datore di lavoro. Né riesce agevole contare - come pur taluno vorrebbe - sul medico competente in vista di un determinante contrasto alle diseguaglianze di genere. Certo, in virtù dell’art. 40 del D.Lgs. n. 81/2008, il medico competente segnala ai servizi competenti, e dunque rileva, le differenze di genere relative ai lavoratori sottoposti a sorveglianza sanitaria. E grazie al decreto legge Lavoro deve finalmente essere nominato dal datore di lavoro e dai dirigenti ai fini della valutazione di tutti i rischi, ivi compresi dunque i rischi attinenti alle discriminazioni di genere. Ma inutilmente abbiamo auspicato che almeno la legge di conversione del decreto legge Lavoro si preoccupasse d’imporre, e, quindi, di autorizzare la sorveglianza sanitaria del medico competente al di fuori dei casi riconducibili nell’ambito dell’art. 41, comma 1, D.Lgs. n. 81/2008 - rischi c.d. tabellati e richiesta del lavoratore - pur se la valutazione dei rischi ne metta in luce la necessità. Riuscirà la Commissione Lavoro alla Camera dei Deputati, in un disegno di legge in discussione, ad approvare l’aggiunta dell’ipotesi in cui “la valutazione dei rischi di cui all’articolo 28, svolta in collaborazione con il medico competente, ne evidenzi la necessità”? Ci fa sperare, a questo punto, la Convenzione O.I.L. n. 190 del 21 giugno 2019 sull’eliminazione della violenza e delle molestie sul luogo di lavoro, resa esecutiva in Italia con la legge 15 gennaio 2021, n. 4. Ciascun Membro dovrà adottare leggi e regolamenti che richiedano ai datori di lavoro di intraprendere misure adeguate e proporzionate al rispettivo livello di controllo in materia di prevenzione della violenza e delle molestie nel mondo del lavoro, ivi comprese la violenza e le molestie di genere. Ma ammetto di non provare entusiasmo per quelle proposte in discussione in sede parlamentare in cui si affaccia un concetto di molestia che non include le condotte vessatorie tenute in un’unica occasione, né le condotte che, pur non prefiggendosi un danno fisico, psicologico, sessuale o economico, lo causino o lo possano comportare. In contrasto proprio con le indicazioni date nella Convenzione OIL che fornisce una definizione di violenza e molestie nel mondo del lavoro ben più ampia: un insieme di pratiche e di comportamenti inaccettabili, o la minaccia di porli in essere, sia in un’unica occasione, sia ripetutamente, che si prefiggano, causino o possano comportare un danno fisico, psicologico, sessuale o economico, ivi incluse la violenza e le molestie di genere. Non manca, si badi, una nota a suo modo positiva. Su un versante cruciale quale quello inerente alle violenze sessuali subite dalle lavoratrici, fanno spicco condanne su condanne per il reato di cui all’art. 609-bis c.p.: 54 sentenze tra il 2020 e il 2023. E comunque, per adesso, in un’ottica quale quella penale, al di là delle violenze sessuali, la storia delle vessazioni sul luogo di lavoro, ivi comprese le molestie di genere, continua ad essere una storia giurisprudenziale che, a differenza di quella francese, non è alimentata da un’apposita, specifica norma, e, dunque, una storia che ha tentato con alterne fortune di scovare nel codice penale un reato in qualche modo adattabile, dagli atti persecutori (il 612-bis) ai maltrattamenti in famiglia (il 572). Persino con il paradossale risultato di limitare le responsabilità alle aziende para-familiari, e quindi di rendere punibili le piccole (piccolissime) aziende, ma non le grandi aziende nell’ambito delle quali i rapporti fra dirigenti e sottoposti tendono ad essere più spersonalizzati come una multinazionale, una banca, un ospedale, un comune.
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