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Smart working: l’accordo individuale può aiutare a gestire permessi e buoni pasto?

Nonostante l’ormai diffuso utilizzo dello smart working non è sempre facile unire il lavoro agile con le ordinarie tematiche contrattuali. Ad esempio, premessa la necessaria flessibilità riconosciuta al lavoratore in merito alla determinazione degli orari di svolgimento della prestazione lavorativa, ha ancora senso parlare di permessi retribuiti riconosciuti in smart working? Ci si interroga, inoltre, se il datore di lavoro abbia l’obbligo di riconoscere i buoni pasto anche ai lavoratori che svolgono la propria prestazione lavorativa in modalità agile. In attesa di una riforma che porti il lavoro agile in una visione contemporanea, perché non prevedere queste determinazioni nell’accordo individuale?

Di acqua sotto i ponti ne è passata. Oggi però dobbiamo fare i conti con la odierna realtà. Sebbene il lavoro agile trovi originariamente un fondamento normativo all’interno dell’ordinamento italiano nella Legge n. 81 del 2017 come strumento di work-life balance, è innegabile come lo stesso abbia trovato un primo vero slancio (o imposizione) durante il periodo pandemico. Il paradosso è che il lavoro agile si è trasformato da metodo di conciliazione dei tempi di vita e di lavoro ad una strategia difensiva dal possibile contagio da Covid-19. Il cosiddetto smart working, già dai primi mesi del 2020, ha infatti progressivamente perso il proprio fondamento di conciliazione della sfera privata e lavorativa, come peraltro inizialmente auspicato dal legislatore, diventando a tutti gli effetti una vera e propria misura di contenimento e contrasto alla diffusione epidemiologica. Dopo quasi quattro anni dallo scoppio della pandemia, vale tuttavia la pena interrogarsi in merito a quale sia l’attuale posizione del legislatore con riferimento allo smart working e, in generale, a quali siano le diverse complessità e sfaccettature che, probabilmente, non siamo a pieno riusciti a cogliere durante il periodo pandemico erroneamente associando il lavoro agile al colloquiale “lavoro da casa”. Smart working secondo i principi della Legge n. 81 del 2017 Come facilmente intuibile dalla definizione stessa, stiamo parlando di una “modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato […], senza precisi vincoli di orario o di luogo di lavoro” (art. 18 della Legge n. 81 del 2017). Inutile negare che ciò che abbiamo sperimentato nel periodo pandemico era probabilmente più prossimo alla definizione di “telelavoro”. Senza voler entrare nel merito delle profonde differenze tra i due istituti, con tale concetto si identifica lo svolgimento della prestazione lavorativa secondo un carico di lavoro e degli orari di lavoro “equivalenti a quelli dei lavoratori comparabili che svolgono attività nei locali dell’impresa”. Al contrario, dall’art. 18 della Legge n. 81 del 2017 si evince come il lavoro agile non si tratti di una mera traduzione dell’attività lavorativa “da casa” o in altro luogo di elezione del lavoratore, ma che il medesimo segua delle regole e delle caratteristiche peculiari, atte a renderlo strumento idoneo per “incrementare la competitività e agevolare la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro”. L’accordo tra le parti Anzitutto, sebbene durante il periodo pandemico sia stata prevista una deroga a tale disposizione (sia chiaro: solo formale. Più volte si è rappresentata la necessità, tutt’ora vigente, di ottenere sempre una intesa con il singolo collaboratore), ai fini della legittimità dello smart working è sempre necessario che le parti redigano un accordo che regoli lo svolgimento dell’attività lavorativa. Alcuni esempi del contenuto minimo possono essere: a) la disciplina dell’esecuzione della prestazione lavorativa all’esterno dei locali aziendali (ad esempio, definendo un numero di giorni minimi di lavoro “in presenza” nei locali aziendali su base settimanale, mensile, annuale, etc.); b) le forme di esercizio del potere direttivo da parte del datore di lavoro nei confronti del lavoratore; c) i tempi di riposo, posta l’assenza dei vincoli di orario di lavoro nei limiti della durata massima del lavoro giornaliero (come disciplinato dal D.Lgs. n. 66 del 2003); d) le misure e tecniche organizzative necessarie per esercitare il diritto alla disconnessione; e) gli strumenti utilizzati dal lavoratore; f) le forme e le modalità di controllo della prestazione lavorativa all’esterno dei locali aziendali, nel rispetto di quanto previsto dall’art. 4 della Legge n. 300 del 1970 nonché dalla normativa vigente in materia di protezione dei dati personali; g) le ampie informative privacy e sicurezza; Come evidente, già queste aree tematiche risultano tutt’altro che banali e posta l’ampia discrezionalità riconosciuta all’accordo, sorgono in capo al datore di lavoro una serie di quesiti ed interrogativi cui la giurisprudenza non ha ancora fornito una risposta univoca. Smart working e tematiche contrattuali: come gestire permessi e buoni pasti? Unire il lavoro agile con le ordinarie tematiche contrattuali sembra sempre più arduo. Ad esempio, premessa la necessaria flessibilità riconosciuta al lavoratore in merito alla determinazione degli orari di svolgimento della prestazione lavorativa, ha ancora senso parlare di permessi retribuiti riconosciuti in smart working? Posto infatti che, proprio per la sua naturale configurazione, il lavoratore dovrebbe (il condizionale appare d’obbligo in quelle formule contrattuali che richiamano il lavoro agile ma tali non sono, imponendo eterodirezione sull’orario lavorativo) poter liberamente determinare le fasce orarie della giornata da destinare al lavoro e alla sfera privata, in assenza di diversa pattuizione tra le parti, è corretto che i vetusti ROL o PAR maturino? Ovvero, si possono inibire? Da un punto di vista giuridico, la risposta viene fornita dal comma 1, art. 20 della Legge n. 81 del 2017 laddove il Legislatore dispone che “il lavoratore che svolge la prestazione in modalità di lavoro agile ha diritto ad un trattamento economico e normativo non inferiore a quello complessivamente applicato, in attuazione dei contratti collettivi di cui all’art. 51 del Decreto Legislativo n. 81 del 2015, nei confronti dei lavoratori che svolgono le medesime mansioni esclusivamente all’interno dell’azienda”. In assenza di altre previsioni da parte del contratto collettivo, l’esclusione dalla maturazione o dalla possibilità di godimento dei R.O.L. (o, in generale, permessi retribuiti), configurerebbe tale comportamento come discriminatorio nei confronti del lavoratore in smart working. Deve però rilevarsi come la disposizione citata veniva introdotta nel 2017 al fine di impedire un sistema vessatorio e depressivo del diffondersi del lavoro agile. Ma oggi, a bene vedere, la concessione di ROL a lavoratori che possono decidere come articolare il loro orario giornaliero, puntano più sul risultato della prestazione che non sul tempo, sembra stridere. Molto dipende da cosa viene formalizzato nell’accordo. Sovente nel patto ex legge n. 81/2017 al lavoratore vengono previste delle fasce orarie in cui il dipendente è tenuto a rendersi reperibile (tendenzialmente coincidenti con l’orario lavorativo vigente in azienda) anche al fine di permettere al lavoratore la piena realizzazione del diritto di disconnessione stante nella disattivazione dei dispositivi di connessione e nella facoltà, in caso di ricezione di comunicazioni aziendali, di non prenderle in carico prima della prevista ripresa dell’attività lavorativa. In tali casi, laddove il lavoratore sia impossibilitato ad essere raggiungibile entro la fascia di reperibilità predeterminata, si pensi ad esempio ad una visita medica o ad un impegno personale, potrebbe configurarsi l’utilizzo del permesso retribuito. Diversamente, nel caso di previsione a merito della quale la lavoratrice/tore possano svolgere la loro attività auto organizzandosi sia la collocazione oraria sia un numero di ore di lavoro, che senso potrebbe avere il riconoscimento del permesso, istituti che nasce per legittimare l’interruzione di un orario eterodiretto? Forse, varrebbe la pena disciplinare questa tematica nell’accordo individuale, senza darla per scontata. Ed i buoni pasto? Ci si interroga se il datore di lavoro abbia l’obbligo di riconoscere i cosiddetti buoni pasto anche ai lavoratori che svolgono la propria prestazione lavorativa in modalità agile. Premesso che il riconoscimento dei ticket restaurant non costituisce un obbligo per il datore di lavoro ma una libera determinazione, configurando come trattamento di miglior favore nei confronti dei propri dipendenti, siamo sicuri che l’esclusione da tale benefit non rischi di configurare come trattamento discriminatorio nei confronti dei lavoratori in smart-working, soprattutto in una fase di (finalmente) incentivazione a tale modalità di svolgimento della prestazione lavorativa? Giurisprudenza di prime cure (Tribunale di Venezia, ordinanza n. 3463 del 08.07.2020) ha escluso una estensione “supina” del buono pasto ai lavoratori agili, ma un controllo alle nostre policy aziendali in tal senso va comunque effettuato. In attesa di una riforma che porti il lavoro agile in una visione contemporanea, perché non prevedere queste determinazioni nell’accordo individuale? Copyright © - Riproduzione riservata

Fonte: https://www.ipsoa.it/documents/quotidiano/2023/12/18/smart-working-accordo-individuale-aiutare-gestire-permessi-buoni-pasto

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