News
Archivio newsLicenziamenti collettivi: perché è legittima l’applicazione del Jobs Act
La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 7 depositata il 22 gennaio 2024, interviene nuovamente, sulla legittimità costituzionale del Jobs Act in materia di licenziamenti, portando a termine l’esame e l’interpretazione iniziata con la decisione n. 196 del 2018. Nello specifico, la Consulta, respingendo una serie di questioni prospettate dalla Corte d’Appello di Napoli, “cristallizza” i contenuti dell’art. 10 del D.Lgs. n. 23/2015 sulla tutela indennitaria per i lavoratori assunti a partire dal 7 maggio 2015 e licenziati al termine di una procedura collettiva di riduzione di personale, viziata, per gli interessati, dalla incongruità del criterio di scelta. Quali sono le ragioni che hanno portato a questa decisone?
Sono passati quasi nove anni dal varo del D.L.vo n. 23/2015 e, in questo periodo, la politica, le parti sociali, i giudici ed i “media” hanno, dal loro punto di vista, largamente dibattuto sull’impianto normativo che ha sostituito, per gli assunti a partire dal 7 marzo 2015, l’art. 18 della legge n. 300/1970, prevedendo, a fronte della illegittimità dei recessi, una tutela indennitaria e non più reintegratoria, quest’ultima limitata a casi ben circostanziati, definiti, in larga parte dall’art. 2. La stessa Corte Costituzionale se ne occupata con alcune decisioni che hanno definito la portata di alcune disposizioni ed il ruolo dei giudici: mi riferisco, essenzialmente, alla sentenza n. 196/2018 relativa alla quantificazione della indennità a fronte di un recesso ingiusto ed alla sentenza n. 150/2020 sui vizi formali e procedurali. Ora, con la decisione n. 7 depositata il 22 gennaio 2024, la Consulta, respingendo una serie di questioni prospettate dalla Corte d Appello di Napoli attraverso l’ordinanza n. 72/2023, “cristallizza” i contenuti dell’art. 10 sulla tutela indennitaria per i lavoratori assunti a partire dal 7 maggio 2015 e licenziati al termine di una procedura collettiva di riduzione di personale, viziata, per gli interessati, dalla incongruità del criterio di scelta. Ma, andiamo con ordine. Le ragioni della decisione della Corte Costituzionale A giudizio della Corte di Appello di Napoli la disposizione in materia di licenziamenti collettivi inserita nell’art. 10 sarebbe frutto di un eccesso di delega rispetto alla previsione del comma 7 dell’art. 1 della legge n. 183/1914 che aveva autorizzato l’Esecutivo ad intervenire con un decreto legislativo in materia di licenziamenti economici che, secondo il giudice remittente, erano soltanto quelli individuali. Tale rilievo, secondo la Consulta, è infondato e tale orientamento viene espresso dopo un lungo ed articolato esame che si è esteso anche dei lavori parlamentari che hanno accompagnato l’approvazione della legge delega: la frase “licenziamenti economici” è da intendersi in senso atecnico e duttile in quanto può essere adoperata in maniera onnicomprensiva sì da comprendere sia i recessi individuali economici che quelli collettivi con riduzione di personale per “ragioni di impresa” e quindi, come tali, economici. La seconda doglianza sollevata dai giudici di Napoli riguarda una irragionevole tutela differenziata tra chi è stato assunto entro il 6 marzo 2015 e chi è stato assunto a partire dal giorno dopo: essi lamentano una “irragionevole disparità di tutela” estremamente penalizzante. Tale disparità non garantisce, secondo la Corte di Appello partenopea, un ristoro efficace laddove il licenziamento sia avvenuto con violazione dei criteri di scelta che, ricordo, sono quelli focalizzati in un eventuale accordo sindacale sottoscritto al termine della procedura o, in mancanza, nell’art. 5 della legge n. 223/1991 che li individua, in concorso tra loro, nei carichi di famiglia, nell’anzianità e nelle esigenze tecniche, produttive ed organizzative. Vale la pena di ricordare che per i lavoratori assunti “ante” D.L.vo n. 23/2015 la violazione dei criteri di scelta comporta la reintegra nel posto di lavoro ed il pagamento di una indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto maturata dal giorno del licenziamento fino a quello della effettiva reintegrazione, dedotti i proventi che il lavoratore ha percepito durante il periodo di estromissione, o quanto avrebbe potuto percepire dedicandosi con diligenza alla ricerca di un nuovo posto di lavoro. L’indennità non può essere superiore a 12 mensilità ed inoltre sussiste la possibilità per il dipendente di rinunciare al posto di lavoro previo pagamento di una indennità pari a 15 mensilità commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto, non assoggettata a contributi previdenziali. La Corte Costituzionale, richiamando precedenti proprie decisioni afferma, invece, che la norma non contrasta con il principio di uguaglianza tra i cittadini, in quanto un trattamento differenziato (è un ragionamento già seguito nella sentenza n. 196/2018) applicato alla stessa fattispecie, in momenti diversi nel tempo, può trovare la propria legittimità in diverse situazioni giuridiche, atteso che, nei limiti della coerenza di sistema e della proporzionalità perseguita, è “possibile applicare un regime sanzionatorio diverso, ove tale diversificazione soddisfi un criterio di razionalità” che, comunque, si rinviene nella norma oggetto di esame. La Corte Costituzionale affronta, poi, la questione della congruità della indennità risarcitoria: il valore (2 mensilità all’anno partendo da una base di 6 fino a 36, strettamente correlate all’anzianità aziendale e calcolate sulla base dell’ultima retribuzione utile ai fini del computo del TFR) eventualmente integrato, entro il tetto massimo, dal giudice sulla scorta dei criteri evidenziati anche dall’art. 8 della legge n. 604/1966, in perfetto “pendant” con quello previsto per i licenziamenti individuali dopo l’intervento della Consulta con la sentenza n. 196/2018, è legittimo e non si pone in contrasto “con il canone di necessario adeguamento del risarcimento, che richiede che il ristoro sia tale da realizzare un adeguato contemperamento degli interessi in conflitto”. Licenziamenti: serve una revisione della disciplina Da ultimo, la Corte effettua una profonda riflessione e lancia un appello al Parlamento: la disciplina attuale che regola la materia dei licenziamenti è estremamente complessa e frutto di stratificazioni di norme accavallatesi nel tempo. Essa dovrebbe essere rivista anche per fare chiarezza in ordine ai criteri applicabili ai diversi datori di lavoro e alla funzione dissuasiva prevista nelle varie situazioni. In tale appello, personalmente ci leggo anche un’altra questione al vaglio della Consulta, relativa ai licenziamenti nelle aziende che non superano la soglia dei 15 dipendenti: questa soglia che pure aveva un valore negli anni passati, in quanto distingueva le piccole imprese da quelle più grandi, non regge più perché ci sono imprese con fatturati enormi che hanno pochissimi dipendenti (altri, magari, sono collaboratori o lavoratori somministrati) e che pagano, in caso di licenziamento illegittimo, la stessa indennità risarcitoria (fino a 6 mensilità) del piccolo artigiano o del piccolo commerciante. Tale casistica è stata segnalata al Parlamento, in una decisione intervenuta nel corso della precedente Legislatura, ma è rimasta, finora, senza risposta. La sentenza n. 7/2024 sembra mettere uno stop ad ogni discussione circa la legittimità costituzionale del D.L.vo n. 23/2015, portando a termine l’esame e l’interpretazione iniziata con la precedente decisione n. 196/2018: le disposizioni principali hanno retto all’esame della Consulta, sicchè si può affermare che, allo stato attuale, la reintegra ex art. 18, è condannata a restare sempre più marginale in quanto sostituita sia per i licenziamenti individuali (con qualche precisa eccezione) che per i licenziamenti collettivi, da una indennità risarcitoria predeterminata in base all’anzianità aziendale che, tuttavia, in caso di giudizio, potrà essere integrata con precise motivazioni ed entro il tetto massimo previsto, dal giudice di merito. Copyright © - Riproduzione riservata