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Archivio newsSfruttamento del lavoro: utilizzo del requisito dell’approfittamento per l’individuazione delle condotte illecite
L’individuazione delle condotte illecite qualificabili come sfruttamento del lavoro presenta non pochi problemi con riferimento all’individuazione delle specifiche fattispecie di reato. Il Legislatore si è astenuto dal fornire una definizione normativa a cui affidare il compito di tratteggiare i confini del fatto di reato e si è limitato a far rinvio alla generica nozione di “sfruttamento”, per la cui intelligenza ha dotato l’interprete di un elenco non tassativo di indici a partire dai quali inferire la verificazione della condotta incriminata. Come è possibile superare le criticità? L’utilizzo della nozione di approfittamento della condizione di difficoltà del lavoratore può essere di aiuto.
La comparsa nel codice penale di una fattispecie direttamente consacrata alla repressione delle condotte di sfruttamento del lavoro ha certamente costituito una risposta a una piaga particolarmente odiosa che tende ad assumere caratteri proteiformi, adattandosi ai più diversi contesti d’azione: le cronache e le inchieste giudiziarie segnalano infatti l’esistenza di diverse forme di sfruttamento lavorativo non solo in ambiti tradizionali come l’agricoltura e l’edilizia, ma anche in settori come il lavoro di cura, la manifattura, le lavorazioni delle carni, la logistica, le consegne a domicilio i servizi alberghieri e di sorveglianza. Con l’obiettivo di fotografare una realtà criminale così cangiante, il legislatore si è astenuto dal fornire una definizione normativa a cui affidare il compito di tratteggiare i confini del fatto di reato e si è limitato a far rinvio alla generica nozione di “sfruttamento”, per la cui intelligenza ha dotato l’interprete di un elenco non tassativo di indici a partire dai quali inferire la verificazione della condotta incriminata. La scelta di questa tecnica normativa, pur giustificata dalla necessità di dar copertura ad una gamma assai ampia di possibili prevaricazioni nei confronti del lavoratore, presenta non pochi problemi con riferimento alla tenuta della tipicità della fattispecie, che in effetti risulta più lasca, quantomeno in assenza di elementi che possano precisare l’essenza del disvalore complessivo verso cui indirizzare la reazione repressiva. Talora, pur in presenza di elementi astrattamente riconducibili agli indici suggeriti dal legislatore, può rivelarsi arduo tracciare una linea di discrimine che consenta di distinguere, con apprezzabile oggettività di giudizio, fra relazioni contrattuali sperequate, ma comunque riconducibili alla fisiologica dialettica fra parte datoriale e parte lavoratrice (di rilievo esclusivamente lavoristico), e forme di prevaricazione che invece giustificano l’attivazione dello strumento penale. Né, almeno finora, l’elemento dell’approfittamento dello stato di bisogno, posto dal legislatore a completamento della disposizione, sembra essere dotato di un’apprezzabile capacità di selezione. Concetto di stato di bisogno La linea di tendenza seguita dalla prevalente giurisprudenza per la configurazione del reato assegna un peso preponderante, se non assorbente, alla ricorrenza degli indici, mentre il concetto di stato di bisogno continua a scontare una certa vaghezza, relegato ad argomento “di complemento”, quasi mai decisivo nel determinare il segno della decisione. Sicché, nella sua proiezione giudiziale, tale requisito della fattispecie è rimasto atrofico, fagocitato da un improprio automatismo presuntivo, per il quale lo stato di bisogno sarebbe da considerarsi in re ipsa ogniqualvolta il lavoratore accetti condizioni di lavoro al di sotto degli standard. Con poche ancorché significative eccezioni, la giurisprudenza non sembra infatti assegnare a tale elemento un ruolo determinante per l’integrazione del reato, ma lo legge come secondo polo di un’endiadi non separabile dallo sfruttamento lavorativo. Ne è emblematica riprova la reciproca integrazione dei due elementi della fattispecie suggerita in alcune sentenze, secondo la quale le condizioni di sfruttamento sono strettamente correlate con lo stato di bisogno in cui versano i lavoratori: queste ultime, infatti, espongono i lavoratori medesimi “alla necessità di sottostare a condizioni (lato sensu) contrattuali affatto inaccettabili per chiunque non si fosse trovato in tale stato di bisogno, con la prospettiva di dover rinunciare, altrimenti, a una pur modestissima fonte di sostentamento” (Cass., sez. IV, 2 marzo 2017-24 marzo 2017, n. 14621, Mare). Più convincenti sono invece gli approdi di quell’ancora esile orientamento che non esaurisce la ricostruzione della condotta tipica nella verifica della sussistenza degli indici di sfruttamento ma richiede il contestuale accertamento di un approfitttamento dello stato di bisogno del lavoratore, “presupposto quest’ultimo che deve ricorrere affinché la condotta di sfruttamento sia punibile”, sicché esso “deve essere noto ed oggetto del vantaggio che il reclutatore o l’utilizzatore tendono a realizzare proprio attraverso l’imposizione di quelle condizioni lavorative che indicano lo sfruttamento” (Cass., sez. IV, 11 novembre 2021 - 4 marzo 2022, n. 7861). Stato di bisogno o vulnerabilità? L’impostazione ricostruttiva sopra tratteggiata sembra invero fondarsi sulla consapevolezza che, specie in contesti connotati da sottoregolamentazione, basso livello di specializzazione con corrispettiva fungibilità delle prestazioni e precarietà (c.d. low skilled jobs), i lavoratori si trovano naturalmente esposti a forme di prevaricazione. In presenza di queste circostanze la fragilità sociale del lavoratore aumenta, insieme alla sua disponibilità ad accettare imposizioni unilaterali dal versante datoriale. Alcuni interpreti rilevano - non a caso - un’assonanza fra questa chiave di lettura e la nozione di “vulnerabilità” di fonte sovranazionale e addirittura suggeriscono di utilizzarla in sostituzione del più oscuro sintagma “stato di bisogno”. Quanto in effetti si possa fare veramente affidamento sulla nozione di vulnerabilità per risolvere problemi di tipicità della fattispecie è tutto da chiarire. Lungi possedere un significato univoco, infatti, gli studi sulla prassi internazionale evidenziano, invero, che tale termine esprime un significato così sfuggente da produrre esiti interpretativi eterogenei e talora contrastanti. Stato di bisogno e reati Non a caso, la giurisprudenza domestica lo ha finora impiegato in relazione al reato di riduzione in schiavitù, precisando che la vulnerabilità si caratterizza per l’esistenza di una situazione in cui il lavoratore non riesce a sottrarsi allo sfruttamento per la “mancanza di alternative esistenziali realisticamente individuabili” e compatibili con le circostanze contingenti (Corte d’Assise di Lecce, 25 ottobre 2017 - 3 luglio 2017, n. 4026, in Giur. it., 2018, 1703 ss.). La situazione di sfruttamento descritta dall’art. 603 bis c.p., invece, fa riferimento a lesioni meno incisive della libertà di autodeterminazione, come comprovato anche dalla modifica normativa del 2016, che ha eliminato il riferimento allo stato di necessità, limitandosi a contemplare il solo stato di bisogno (Cass., IV, 11 novembre 2021 - 4 marzo 2022, n. 7861, cit.). Pertanto, l’impiego della nozione di vulnerabilità anche con riferimento allo sfruttamento lavorativo finirebbe col risultare improprio e amplificherebbe il rischio di sovrapposizione con l’art. 600 c.p., che invece espressamente contempla l’approfittamento di una situazione di vulnerabilità. Per altro verso, analogamente, non priva di risvolti problematici è la soluzione - sperimentata dalla Cassazione e suggerita dall’INL (circolare n. 5 del 2019) - che attinge, per la ricognizione del significato dell’espressione “stato di bisogno”, alla giurisprudenza maturata con riferimento al reato di usura: talché, siffatto elemento andrebbe inteso “non come uno stato di necessità tale da annientare in modo assoluto qualunque libertà di scelta”, ma come un “impellente assillo che, limitando la volontà del soggetto, lo induca” ad accettare condizioni manifestamente sperequate e non negoziabili (Cass. 9 settembre 2019, n. 39425, Giordano). Il requisito dell’approfittamento La scarsa capacità selettiva del riferimento allo stato di bisogno del lavoratore ha indotto parte della dottrina a considerarlo un requisito ridondante, ritenendo il disvalore del fatto incentrato unicamente sul concetto di sfruttamento. Tuttavia, è da considerare che la norma, più che la mera esistenza di uno stato di bisogno, richiede che il datore di lavoro si approfitti di questa condizione di difficoltà del lavoratore. Tale elemento della fattispecie, pertanto, sul piano ricostruttivo andrebbe preso maggiormente sul serio. Innanzitutto, perché è lo stesso legislatore ad avergli conferito una funzione tipizzante e sarebbe un grave arbitrio interpretativo svilirne la portata. Inoltre, l’approfittamento sottende un quid pluris che, dal punto di vista del soggetto agente, implica una direzione finalistica dell’azione che oltrepassa quella relativa al mero sfruttamento, che sotto il profilo psicologico ed empirico-criminale può essere riconducibile alla “fisiologica” tendenza capitalistica a massimizzare il profitto. Pertanto, al fine di approfittare dello stato di bisogno altrui è necessaria una condotta attiva, distinta da quella nella sottoposizione a condizioni di sfruttamento, che sia espressione dell’abuso di una condizione conosciuta ed intenzionalmente strumentalizzata dall’agente per instaurare o consolidare un rapporto di dipendenza “al ribasso” in presenza delle condizioni di sfruttamento penalmente tipiche. A svalutare tale requisito, si rischia peraltro di smarrire definitivamente il confine fra la mera irregolarità e le condotte dotate invece di disvalore penale: con la conseguenza che ogni singola irregolarità potrebbe ricondursi all’area operativa dell’art. 603 bis c.p. In questo senso la giurisprudenza comincia ad orientarsi verso una ricostruzione secondo la quale non basta ravvisare “i sintomi dello sfruttamento, come indicati dal terzo comma dell’art. 603 bis cod. pen., ma occorre l’abuso della condizione esistenziale della persona, che non coincide solo con la sua conoscenza, ma proprio con il vantaggio che da quella volontariamente si trae” (Cass., IV, 11 novembre 2021 - 4 marzo 2022, n. 7861; così anche Cass., IV, 11 novembre 2021 - 13 dicembre 2021, n. 45615). Copyright © - Riproduzione riservata