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Archivio newsCase green: dall’UE una direttiva che fa discutere
La strategia adottata dalla Direttiva case green contempla misure normative, finanziarie e di sostegno per gli anni a venire. Obiettivo: raddoppiare il tasso annuo delle ristrutturazioni energetiche degli edifici entro il 2030 e promuovere la ristrutturazione “profonda” di oltre 35 milioni di edifici nell’Unione europea (il concetto di ristrutturazione “profonda” non è, però, ancora stato definito nel diritto unionale). Quale prima impressione la Direttiva appare come un buon esercizio teorico per disegnare uno scenario ideale per un futuro più o meno lontano delle emissioni zero e dei consumi energetici molto contenuti. Manca, però, un riscontro di fattibilità degli interventi e di sostenibilità finanziaria, numeri alla mano, per i singoli Stati. Infatti, per attuare la Direttiva dovranno essere osservati molti obblighi, il cui elenco è lungo, i cui costi sono alti. Come dovrà l’Italia accostarsi a un programma europeo di transizione energetica sicuramente valido ed apprezzabile come modello teorico, ma ancora una volta con vaghezza sulle misure concrete di attuazione? L’auspicio è comunque quello che non si ripetano le scellerate situazioni del recente passato in materia di superbonus ristrutturazioni.
Evitando il rischio di approcci di tipo politico connessi all’approvazione da parte della Direttiva del Parlamento europeo sulle emissioni degli edifici e sulle ristrutturazioni edilizie riassunta con l’espressione “green deal”, il presente contributo riporta sintetiche riflessioni sui suoi profili finanziari e tributari. In estrema sintesi, di cosa si parla? La strategia adottata dalla Direttiva contempla misure normative, finanziarie e di sostegno per i prossimi anni e si pone l'obiettivo almeno di raddoppiare il tasso annuo delle ristrutturazioni energetiche degli edifici entro il 2030 e di promuovere la ristrutturazione “profonda” di oltre 35 milioni di edifici nella UE. Il concetto di "ristrutturazione profonda" non è, però, ancora stato definito nel diritto dell'Unione europea. In una visione di lungo periodo potrebbe configurarsi come intervento rilevante che trasforma gli edifici in edifici a emissioni zero e, in un orizzonte a più breve termine, come quello che li trasforma in edifici a energia quasi zero. L’art. 7 della Direttiva assegna agli Stati membri la missione di realizzare dal 1° gennaio 2026 ad emissione zero gli edifici di nuova costruzione ad uso pubblico e dal 1° gennaio 2028 tutti gli altri edifici di nuova costruzione. Si potrà discutere sulla sostenibilità di questi termini, ma è doveroso riconoscere che questo primario obiettivo deve essere perseguito il prima possibile. Diverso e ben più complicato è l’intervento relativo alle ristrutturazioni che può essere ipotizzato, a decorre dalle anzidette date, sugli edifici esistenti anteriormente, caratterizzati da bassi ed insufficienti indici di prestazione energetica e da elevate emissioni. La copertura finanziaria degli interventi è disciplinata dall’art. 15 della Direttiva, che riguarda gli incentivi finanziari da impiegare insieme ad altri strumenti dell'Unione europea (come il PNRR, il Fondo sociale per il clima e i fondi della politica di coesione). Essa prevede, in termini generali, finanziamenti per affrontare le barriere di mercato e stimolare gli investimenti necessari nelle ristrutturazioni volte a trasformare il parco immobiliare in edifici a emissioni zero entro il 2050. È agevole osservare, almeno quale prima impressione, che la Direttiva appare come un buon esercizio teorico per disegnare uno scenario ideale per un futuro più o meno lontano delle emissioni zero e dei consumi energetici molto contenuti.Manca però, a parere di chi scrive, un riscontro di fattibilità degli interventi e di sostenibilità finanziaria, numeri alla mano, per i singoli Stati. Lo ha efficacemente asserito il Ministro italiano per l’Economia e le Finanze, Giancarlo Giorgetti, il quale ha definito bellissima la direttiva, ma si è chiesto chi pagherà e, naturalmente non se lo chiede solo lui. Occorre, quindi, in primo luogo stabilire una razionale ripartizione del carico delle spese tra il pubblico ed il privato da definire in base ad un’analisi economica dei costi e dei benefici attesi per la collettività e per i singoli soggetti interessati. Non solo, andrebbe fissato un orizzonte temporale ragionevole superato il quale il mancato intervento di ristrutturazione ecologico ed energetico, per gli edifici costruiti ante 2027, dovrebbe comportare penalità pecuniarie opportunamente gradualizzate, il cui gettito dovrebbe essere destinato a finanziare prioritariamente i progetti di ristrutturazione degli edifici che hanno i peggiori indici (classi energetiche) e di proprietà dei soggetti più poveri (indici ISEE). Si potrà obiettare che si tratterebbe di un’impostazione solo teorica che incontrerebbe sicuramente ampie resistenze politiche ed un immediato e forte scetticismo sulla fattibilità. La ricerca di un certo bilanciamento tra le penalizzazioni (il bastone) e le incentivazioni (la carota) per indurre ad agire concretamente coloro che vi sono tenuti, senza attendersi (solo) generose sovvenzioni pubbliche, s’impone tassativamente. Il bilancio pubblico italiano ha sperimentato una scellerata stagione dissipatoria di risorse pubbliche. Veniamo, infatti, da un’esperienza a dir poco kafkiana sugli interventi di ristrutturazione edilizia astrattamente “virtuosi” perché volti a contenere i consumi energetici delle case. Eco e superbonus adottati in modo scriteriato nell’ultimo quinquennio hanno, tuttavia, prodotto il “disastro” nelle finanze pubbliche (circa 270 miliardi di crediti d’imposta) con effetti devastanti sul deficit di bilancio e sul debito pubblico. I benefici ottenuti in termini di transizione ecologica e di risparmio energetico sono ancora tutti da valutare ed è augurabile che l’ENEA raccolga le informazioni utili, aiutata dall’Agenzia delle Entrate, per fornire dati attendibili sui miglioramenti effettivamente conseguiti con gli interventi di ristrutturazione supportati dalla finanza pubblica e compia un’analisi dell’onere per unità di consumo (kwh) risparmiata per fare un bilancio costi/benefici totali. Lo strumento dei crediti d’imposta, utilizzato per attuare il sostegno agli investimenti di ristrutturazione, che prevedeva un ammontare anche superiore a quello degli investimenti stessi (il 110%), si è rivelato un “ulteriore disastro”, soprattutto per l’automatismo che comportava. E’ stato posto un solo limite all’entità delle spese, fissandole al massimo in 96.000 euro per unità immobiliare. E’ però mancata per alcune di esse qualsivoglia limitazione quantitativa per le unità immobiliari da agevolare per singolo investitore (senza distinzione dell’ammontare dei redditi goduti!). I criteri di controllo della congruità sono stati ragguagliati a prezziari locali spesso inattuali ed eccessivi. Il risultato è stato sotto il profilo economico un mercato dei materiali per le ristrutturazioni e per gli appalti ampiamente alterato e drogato (nessun appaltatore ha più contrattato con decisione i prezzi di acquisto, perché scaricabili sul bilancio pubblico) ed esposto a truffe colossali, ancora tante da accertare. La mancanza di controlli ex ante (in sede di presentazione dei progetti) e durante ha incoraggiato iniziative che in un’economia di mercato sarebbero state respinte da qualsiasi datore di credito (banche e fornitori). In più si è prodotto un mercato “finanziario” anomalo delle cessioni dei crediti d’imposta con margini spesso oltre i limiti della ragionevolezza e, in non pochi casi, aventi come sottostante operazioni non veritiere in tutto o parte. Il danno maggiore è derivato, come già segnalato, dal criterio automatico di fruizione in compensazione (a seguito dello sconto in fattura o di cessione) adottato senza fissare alcun tetto all’intervento pubblico complessivo, in tal modo ponendo le basi di una frana senza precedenti. Sarebbe stato sufficiente non solo prevedere i limiti dell’impegno pubblico complessivo ma richiedere una preventiva autorizzazione alla fruizione dell’aiuto quanto meno da subordinare ad un esame preliminare di fattibilità. Certamente del senno di poi sono piene le fosse, ma anche prima non sono mancate le sollecitazioni ad intervenire! (sia consentito, tra le altre, citare lo scrivente negli Editoriali di IPSOA Quotidiano Bonus casa, frodi e controlli. Un aiuto dal PNRR e Bonus fiscali, continua la saga sui controlli). Scioccati e fortificati da un simile precedente come dovrà lo Stato italiano accostarsi ad un programma europeo di transizione energetica sicuramente valido ed apprezzabile come modello teorico, ma ancora una volta con misure concrete di attuazione devolute ai singoli legislatori nazionali? Per attuare la Direttiva europea dovranno essere osservati molti obblighi, il cui elenco è lungo, a cominciare dall’obiettivo innanzi segnalato delle zero emissioni. Per gli interventi di ristrutturazione l’obbligo sembrerebbe interessate il 16% degli edifici pubblici entro il 2030 e un ulteriore 10% nei successivi tre anni. In termini di consumi energetici la riduzione programmata per gli edifici è indicata nel 16% da ottenere entro il 2030 e nel 22% nei successivi cinque anni, con obbligo di pannelli solari in tutti gli edifici pubblici. Sarà anche vietata dal 2040 l’installazione di caldaie a gas. Nessuno dubita che sia necessario intervenire sul patrimonio immobiliare italiano più vetusto e pericoloso nel Paese dei terremoti e delle frane e smottamenti, nonché delle edificazioni illegittime e fuori norma, che inducono a chiedere periodicamente interventi di sanatoria. Ma va posto anche in sicurezza il bilancio pubblico da frane e smottamenti. Il nostro Paese potrà certamente avvalersi delle esperienze maturate negli ultimi anni nelle ristrutturazioni eseguite. Ed è da mettere in previsione un vasto programma di interventi per ridurre significativamente i consumi energetici a medio/lungo termine che riguardi gli immobili con le peggiori classi di prestazione energetica, classificate tra la D e la G, che interesserebbe l’85% circa degli immobili, il cui numero è stimato in 4,9 milioni. Quelli potenzialmente interessati dall’applicazione della Direttiva UE sono stimati in 3,5 milioni, secondo un recente studio del Cresme. Ritorna qui la domanda: chi paga le spese previste da 285 a 320 miliardi fino al 2030 (per l’ENEA tali spese si attesterebbero a 258 miliardi)? Questa volta occorrerà essere molto più attenti nei controlli sin dalla fase di richiesta preventiva dell’agevolazione e nel fissare limiti di spesa complessivi e coperture certe, ivi compresi i fondi europei non utilizzati finora per altri fini. Si dovranno sensibilmente anche migliorare le tecniche ed i materiali di ristrutturazione, aumentando adeguatamente la qualificazione professionale a carattere tecnologico dei lavoratori, a cominciare dai più giovani. La strada è tracciata! Copyright © - Riproduzione riservata
Fonte: https://www.ipsoa.it/documents/quotidiano/2024/05/04/case-green-ue-direttiva-discutere