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Cessione del quinto della retribuzione: quali sono gli obblighi del datore di lavoro

E’ ormai prassi costante il ricorso da parte dei lavoratori all’istituto della cessione del quinto della retribuzione, mediante il quale il dipendente che ha bisogno di liquidità chiede un prestito ad una società finanziaria e si impegna a restituire l’importo pattuito mediante la trattenuta di rate direttamente sul cedolino paga. Anche se la procedura è collaudata, sorgono da parte il datore di lavoro alcuni dubbi sulla reale applicazione. E’ obbligatorio accettare le cessioni e compilare certificazioni stipendiali? Occorre comunicare alla società finanziaria l’eventuale modifica del trattamento retributivo del dipendente?

Non è una novità. Lo è semmai l’aumento dei casi. Negli ultimi anni assistiamo con sempre maggior frequenza al ricorso, da parte dei lavoratori dipendenti, a contratti di finanziamento a mezzo dei quali si accede a forme di prestito a fronte di trattenute (“cessioni” appunto) operanti sulla retribuzione netta. Banalizzando, il lavoratore che abbia bisogno di liquidità per soddisfare un proprio interesse, chiede un prestito ad una società finanziaria e si impegna a restituire l’importo pattuito (maggiorato ovviamente di spese istruttorie, di interessi ecc.) mediante la trattenuta di rate - solitamente di importo fisso - direttamente sul cedolino paga. Queste rate vengono quindi prelevate dal datore di lavoro (malcapitato operatore in questa fitta telenovela) dal netto spettante al collaboratore e versate alla finanziaria mediante bonifico. La prassi è nota. Così come sono celeberrime moltissime domande (come datore di lavoro sono obbligato ad accettare le cessioni? Davvero mi è imposto di compilare certificazioni stipendiali?) che ogni giorno vengono poste e che qui troveranno risposta. Il contesto normativo della cessione del quinto della retribuzione Giova ricordare, innanzitutto, come la cessione del credito rientri nella fattispecie dell’art. 1260 c.c. che prevede: “Il creditore può trasferire a titolo oneroso o gratuito il suo credito, anche senza il consenso del debitore, purché il credito non abbia carattere strettamente personale o il trasferimento non sia vietato dalla legge. (…)”. Il datore di lavoro, in quanto creditore nei confronti del dipendente per la prestazione di lavoro svolta, si trova ad essere debitore della finanziaria attesa la cessione in parola. Leggendo l’art. 1260 c.c., appare immediatamente evidente come la cessione del quinto dello stipendio rappresenti un accordo tra il lavoratore e il suo creditore (la società che eroga il prestito) che non ha bisogno di accettazione da parte del debitore ceduto, ossia il datore di lavoro. Infatti, per avere efficacia è sufficiente che la cessione del quinto venga notificata al datore di lavoro (ai sensi dell’art. 1264 c.c., “la cessione ha effetto nei confronti del debitore ceduto (datore di lavoro), quando questi l’abbia accettata o gli sia stata notificata”. Si genera, pertanto, una situazione che riguarda n. 3 differenti soggetti: 1) il lavoratore cedente (i soggetti che possono stipulare un contratto di finanziamento sono i lavoratori subordinati che siano provvisti di stipendio o salario fisso e continuativo ma anche i collaboratori coordinati e continuativi, gli agenti e i rappresentanti di commercio. In caso di aspettative non retribuite o congedi senza retribuzione, il contratto di cessione non può essere perfezionato), 2) la società finanziaria (possono concedere prestiti solo gli istituti esercenti il credito e le società di assicurazioni) 3) e il datore di lavoro, diremmo, concedetecelo, suo malgrado. Naturalmente, come è giusto che sia, questa cessione del credito incontra alcuni limiti previsti dal D.P.R. n. 180/1950 in ordine, in primo luogo, alla misura e alla durata della cessione: non è possibile cedere il proprio credito in misura superiore al quinto dello stipendio e per un periodo superiore a 10 anni.Per i lavoratori assunti con contratto di lavoro a termine, si prevede, invece, che la durata della cessione non possa eccedere il periodo di tempo che, dal momento della stipulazione del contratto di cessione, deve ancora trascorrere per la scadenza del contratto. Inoltre, per i lavoratori a cui manchino meno di 10 anni non possono contrarre prestiti di durata superiore alla cessione di tante quote mensili quanti sono i mesi necessari per il conseguimento del diritto alla pensione. Per richiedere un prestito il lavoratore deve presentare all’istituto di credito alcuni documenti atti a dimostrare la sua situazione economica e la capacità di estinguere il debito. Normalmente le società finanziarie chiedono, oltre ai documenti di identità, il cedolino paga e l’ultima (o le ultime) certificazioni uniche anche il “certificato di stipendio”. Questo documento contiene i dati retributivi del lavoratore e del rapporto di lavoro (anzianità di servizio, livello di inquadramento, tipologia di contratto, l’attestazione del TFR maturato e rimasto in azienda e/o versato al fondo di previdenza complementare ecc.) e viene richiesto al datore di lavoro per valutare la solvibilità del dipendente stesso. Vexata questio. Il datore di lavoro è obbligato a compilare e firmare il certificato di stipendio? In considerazione del fatto che la cessione del proprio credito da parte del lavoratore a favore dell’istituto finanziario non richiede alcuna accettazione da parte del datore di lavoro, parimenti, non vi è alcun obbligo per il debitore ceduto di compilare e sottoscrivere alcuna dichiarazione. Pertanto, il procedimento di concessione del finanziamento prescinde dal rilascio di qualsivoglia dichiarazione da parte del datore di lavoro e la società finanziaria può desumere tutti i dati necessari direttamente dalla busta paga, da copia del contratto di lavoro e dalla certificazione unica fornita dal dipendente. Una volta che l’ente creditore ha concesso il finanziamento, il datore di lavoro riceve l’atto di benestare e da questo momento è obbligato a dare seguito alla cessione del quinto. Peraltro, non banale, non solo non è obbligatorio sottoscrivere il certificato di stipendio, ma in molti casi è sconsigliabile farlo in quanto potrebbe celarsi sotto una presunta cessione del quinto una delegazione di pagamento. Pertanto, a decorrere dal primo cedolino utile, il datore di lavoro dovrà provvedere ad operare le trattenute previste dal contratto di finanziamento e versarla all’istituto di credito. Infine, tra gli obblighi del datore di lavoro vi è quello di comunicare alla società finanziaria l’eventuale modifica del trattamento retributivo del dipendente (si pensi, ad esempio, alla trasformazione del rapporto di lavoro a tempo pieno in rapporto di lavoro part-time e alla conseguente riduzione della retribuzione). In tal caso, l’art. 35 del D.P.R. n. 180/1950 prevede che qualora la retribuzione subisca una riduzione pari o inferiore ad 1/3 del suo ammontare, il datore di lavoro potrà continuare ad effettuare la trattenuta delle rate pattuite. Viceversa, ove la riduzione sia superiore ad 1/3, la trattenuta non potrà eccedere 1/5 della nuova retribuzione, pertanto, sarà necessario comunicare all’ente creditore le modifiche intervenute al rapporto di lavoro affinché effettui un nuovo conteggio. Limiti di cedibilità del TFR e altre somme Ai sensi dell’art. 52 del D.P.R. n. 180/1950 i lavoratori possono cedere l’intero ammontare del TFR in quanto non si applica il limite di 1/5 dello stipendio (“Alla cessione del trattamento di fine rapporto posta in essere dai soggetti ((di cui al precedente e al presente comma)) non si applica il limite del quinto”. Risulta altresì ammissibile vincolare l’intero TFR come garanzia sia per la quota già accantonata, sia per l’importo che il lavoratore maturerà nel prosieguo del rapporto lavorativo. Pertanto, in caso di cessazione del rapporto di lavoro, il datore di lavoro è tenuto a versare il TFR all’istituto di credito fino al saldo dell’importo del prestito residuo. Se l’istituto ex art 2120 c.c. risulta maggiore del prestito residuo, il datore di lavoro verserà la quota necessaria ad estinguere il debito e corrisponderà la parte residua al dipendente. La realtà, lo sappiamo, è statisticamente più beffarda. Cosa succede se, invece, il TFR è di importo inferiore rispetto al prestito residuo. Chiaramente l’integrale istituito di fine rapporto sarà corrisposto alla società finanziaria ma, se non bastevole, cosa succede? Nella prassi, molto di frequente, le società finanziarie prevedono clausole nelle quali è statuito che siano disposte a copertura del debito contratto “tutte le somme a qualsiasi titolo e sotto qualsiasi denominazione corrisposte e ogni indennità conseguita”. Tali clausole sono legittime? Non sembra proprio. Come potrebbero esserlo se l'art. 52 del D.P.R. n. 180/1950 obbliga il datore di lavoro a trattenere un quinto delle competenze stipendiali dovute al lavoratore, comprendendovi, oltre che lo stipendio, le indennità erogate in misura continuativa ed i ratei di mensilità aggiuntiva. La norma è chiara nel riferire “non superiori al quinto”. Non solo. il disposto in parola impone altresì al datore di lavoro di erogare per intero il trattamento di fine rapporto, in assenza di decurtazioni, nell'ipotesi in cui al sopraggiungere della cessazione del rapporto di lavoro non sia esaurito il prestito. Pertanto, se al dipendente cessato il TFR non è sufficiente a rifondere la finanziaria, il datore di lavoro: - procederà alla trattenuta di 1/5 sulle competenze stipendiali, ratei mensilità aggiuntive, indennità - procederà a trattenere interamente il TFR netto posto a garanzia del finanziamento contratto dal dipendente. Copyright © - Riproduzione riservata

Fonte: https://www.ipsoa.it/documents/quotidiano/2024/06/10/cessione-quinto-retribuzione-obblighi-datore-lavoro

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