• Home
  • News
  • Direttiva CSDD, tra sostenibilità e due diligence: un’occasione che l’Italia non può perdere

Direttiva CSDD, tra sostenibilità e due diligence: un’occasione che l’Italia non può perdere

La direttiva Corporate sustainability due diligence contiene norme che impongono alla direzione aziendale un preciso dovere di controllo per assicurare che tutti i processi aziendali, anche quelli che apparentemente si svolgono al di fuori dei confini nazionali e dei poteri di organizzazione dei fattori della produzione, siano sostenibili. E’ innovativa soprattutto per quei Paesi che non hanno regole a riguardo: l’Italia ha (solo) una legislazione che si è indirizzata verso il “controllo” di operazioni che si realizzano all’interno dei confini nazionali, con sanzioni individuate sul piano della responsabilità penale. La natura della sanzione e la mancanza di indicazioni specifiche in ordine al contenuto di questo dovere di sorveglianza rendono di incerta applicazione la sanzione penale oggi esistente. In questo senso, il sopraggiungere della direttiva CSDD potrebbe costituire l’occasione (da non perdere), attraverso la legge di futura trasposizione, per meglio precisare quali siano gli obblighi che gravano sugli amministratori delle società che commerciano con l’estero.

Il progressivo ma inesorabile peggioramento delle condizioni climatiche globali, unitamente all’esaurirsi delle riserve di molti materiali pregiati o comunque rari, hanno indotto oramai da ben più di un ventennio sociologi, giuristi ed economisti a riflettere sui processi di creazione di valore, e dunque sul fondamento normativo che legittima l’impresa. Si tratta, per molti versi, di un tema classico della scienza economica, anche se non viene più in rilievo la questione della libertà individuale, che appare pacificamente condivisa da quanti si occupano del tema, ma le condizioni stesse che consentono all’iniziativa privata di generare profitto. In altre parole, si tratta di indagare sul processo produttivo, per verificare se esso sia rispettoso dell’ambiente e dei diritti dei soggetti con i quali l’impresa viene a contatto (lavoratori, fornitori, intermediari etc.). A fronte della fitta rete normativa che, nei paesi europei e dell’occidente industrializzato, disciplina i tanti aspetti collegati alla produzione (si pensi alle discipline in tema di lavoro subordinato, alla tutela del suolo e alla prevenzione dall’inquinamento, al trasporto, alla regolamentazione degli imballaggi etc.), la riflessione si indirizza soprattutto verso le imprese multinazionali, per verificare, attraverso norme condivise quanto meno a livello europeo, se l’intera filiera produttiva sia sostenibile dal punto di vista sociale ed ambientale. A questi fini, lo scorso 25 maggio il Consiglio dell’Unione europea ha adottato, al termine di un processo legislativo abbastanza tormentato, una nuova direttiva, la CSDD - Corporate sustainability due diligence, che impone alle imprese di grandi dimensioni che facciano ricorso ad accordi commerciali con paesi terzi del “Sud del mondo” di verificare se quella parte della linea produttiva che è delocalizzata (e precisamente quella che dà luogo all’acquisto di materie prime, di alimenti, di semilavorati o del vero e proprio prodotto finito) operi nel rispetto dei più elementari diritti dell’uomo e se via sia garanzia di un uso dell’ambiente che non intacchi le energie e le materie non rinnovabili. La direttiva contiene norme innovative soprattutto per quei paesi, e l’Italia è fra questi, che non hanno regole a riguardo; mentre al contrario negli anni più recenti molti altri Stati europei si sono dotati di norme che impongono, in capo alla direzione aziendale, un preciso dovere di controllo (due diligence) per assicurare che tutti i processi aziendali, anche quelli che apparentemente si svolgono al di fuori dei confini nazionali e dei poteri di organizzazione dei fattori della produzione, siano sostenibili. In verità, anche l’Italia negli anni scorsi si è dotata di una legislazione di questo tipo, anche se, paradossalmente, più che operare sulle norme societarie e sulla produzione estera, le previsioni legislative si sono indirizzate verso le operazioni che si realizzano all’interno dei confini nazionali, mentre la sanzione è stata individuata sul piano della responsabilità penale. Mi riferisco alle ben note leggi sul caporalato che sono state pensate per mettere ordine in settori, come ad es. l’agricoltura, la logistica e l’edilizia, nei quali l’ordinaria attività ispettiva non riusciva a fronteggiare il numero e la dimensione degli abusi. Anche in questo campo, tuttavia si è registrata un’evoluzione, nel senso indicato più sopra. Ed infatti, all’inizio (art. 603 bis c.p., come introdotto dal d.l. 13 agosto 2011, n. 138) la condotta che veniva visualizzata e punita dal legislatore era quella di chi, spesso appartenendo allo stesso gruppo nazionale o etnico dei lavoratori oggetto di sfruttamento, li organizzava in squadre e contrattava con gli imprenditori o i proprietari terrieri il tipo di lavoro da fornire e il compenso dovuto. Si trattava di una ipotesi invero particolare, nella quale i lavoratori sono tenuti in stato di soggezione da chi li direttamente comanda (il “caporale”), generalmente in forza di un potere di intimidazione che si fonda su violenze e ricatti. Dal 2016, la norma è stata però riformulata, in modo che è ora prevista la punibilità anche di chi, in ogni modo, sfrutta il lavoro altrui, ampliando i confini della fattispecie vietata, anche in relazione a produzioni che avvengano al di fuori dei confini italiani ed anche in relazione a chi di fatto beneficia dell’applicazione di condizioni lavorative disumane. Ed invero nel frattempo ci si era resi conto che in molte zone, anche del Nord della Penisola, la condizione dei lavoratori (specialmente agricoli), anche se cittadini italiani o regolarmente dotati di permesso di soggiorno, raggiunge spesso livelli di sfruttamento inaudito. Tanto è conseguenza, sia della concorrenza di produzioni a basso costo che giungono da altre regioni agricole, spesso extraeuropee, sia di operazioni di concentrazioni di mercato, che possono determinare un innaturale abbassamento del prezzo di cessione del prodotto pronto per la vendita, sia di un modo di condurre l’impresa che sconfina nell’attività criminale. In questo senso, già oggi la norma penale, volendo reprimere ogni possibile ipotesi di sfruttamento, punisce non solo le imprese che siano direttamente responsabili della violazione dei diritti dei lavoratori, ma anche quelle che non provvedono adeguatamente a sorvegliare quali siano le condizioni di produzione dei beni che sono poi importati e distribuiti nei mercati italiani ed europei. La natura della sanzione e la mancanza di indicazioni specifiche in ordine al contenuto di questo dovere di sorveglianza (o di due diligence, come un po’ impropriamente si dice) rendono, però, di incerta applicazione la sanzione penale oggi esistente, tanto che alcune importanti realtà produttive hanno dovuto confrontarsi con l’azione degli inquirenti che, ritenendo violata la norma nell’ambito delle condizioni di lavoro degli addetti alla logistica, hanno minacciato il sequestro dell’azienda stessa e l’eventuale nomina di un amministratore giudiziario, come pure è previsto nei casi più gravi. In questo senso, il sopraggiungere della direttiva CSDD potrebbe costituire un’occasione, attraverso la legge di futura trasposizione, per meglio precisare quali siano gli obblighi che gravano sugli amministratori delle società che commerciano con l’estero. Venendo al contenuto della direttiva, in sintesi, si può dire che le imprese cui la direttiva si riferisce dovranno modificare i processi decisionali per prevedere un obbligo di sorveglianza, che riguarda le loro catene di approvvigionamento e le pratiche commerciali poste in essere con i fornitori, nella prospettiva di identificare e prevenire il rischio di impatti negativi sui diritti umani e sull’ambiente. La direttiva si applica alle imprese aventi sede, o una rappresentanza legale, nel territorio dell’Unione europea, che abbiano alle proprie dipendenze più di mille dipendenti, o che realizzino un fatturato mondiale annuo di oltre 450 milioni di euro, ovvero che, pur avendo sede centrale all’estero, realizzino nel territorio dell’Unione europea oltre 450 milioni di euro di fatturato annuo. Gli Stati membri dell’Unione hanno due anni di tempo per provvedere a trasporre la direttiva nel loro ordinamento interno. Per le imprese, tuttavia, i termini per l’adeguamento sono differenziati in ragione alle dimensioni, di modo che le procedure di controllo dovranno essere adottate entro il 2027 per le imprese più grandi (e cioè quelle con oltre 5.000 dipendenti e con un fatturato mondiale superiore a 1.500 milioni di euro); l’anno successivo sarà la volta delle imprese con oltre 3.000 dipendenti e un fatturato mondiale di 900 milioni di euro; mentre entro il 2029, tutte le restanti società rientranti nel campo di applicazione della direttiva (come si è detto, più di mille dipendenti e 450 milioni di euro di fatturato annuo) saranno chiamate a modificare le procedure interne di compliance. Copyright © - Riproduzione riservata

Fonte: https://www.ipsoa.it/documents/quotidiano/2024/06/22/direttiva-csdd-sostenibilita-due-diligence-occasione-italia-non-perdere

Iscriviti alla Newsletter




È necessario aggiornare il browser

Il tuo browser non è supportato, esegui l'aggiornamento.

Di seguito i link ai browser supportati

Se persistono delle difficoltà, contatta l'Amministratore di questo sito.

digital agency greenbubble