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Archivio newsAssenze ingiustificate: la “stretta” del Legislatore sulle dimissioni del lavoratore (per fatti concludenti) avrà gli effetti sperati?
Con la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale del collegato Lavoro (legge n. 203/2024) prende il via la nuova disciplina sulle assenze ingiustificate del lavoratore, una pratica scorretta che negli ultimi anni ha dato luogo a non poche criticità per le aziende. La disposizione, che pare riportare in vita le dimissioni per fatti concludenti che erano state introdotte dalla Legge Fornero nel 2012, poi cancellate dal Jobs Act del 2015, fa sorgere, tuttavia, per come è formulata, più di una perplessità. Quali? In primo luogo, sul ruolo dell'Ispettorato del Lavoro il quale non ha un obbligo di intervento, ma solo di ricezione della eventuale segnalazione aziendale, con la facoltà di verificare la natura dell'assenza segnalata. Non solo, ulteriori dubbi potrebbero derivare dalla gestione del preavviso in caso di dimissioni per fatti concludenti. Senza contare le criticità in merito alle previsioni ad opera della contrattazione collettiva anche tenendo conto degli orientamenti già espressi in passato dalla giurisprudenza. Viene quindi, da chiedersi, se le novità oggi previste risolveranno definitivamente le passate criticità. Solo l’applicazione pratica di questa norma potrà aiutare a sciogliere i molti dubbi che essa nasconde.
Con il definitivo passaggio in Senato del DDL in materia di lavoro - che si attendeva peraltro da alcuni mesi - e la pubblicazione della legge in Gazzetta Ufficiale (legge n. 203/2024) entra in vigore anche la nuova disciplina sulle assenze ingiustificate.
Disciplina - come è noto - preordinata a risolvere una pratica scorretta che negli ultimi anni ha dato luogo a non poche criticità - e ad alcuni interventi da parte della giurisprudenza - in ragione, da un lato degli stretti vincoli procedurali previsti dalla legge per la convalida delle dimissioni (art. 26 D.Lgs. n. 151/2015) che, nel caso di assenza ingiustificata e continuata del lavoratore, lascia spesso le aziende in una situazione di incertezza gestionale e dall’altro, dei possibili abusi nella fruizione delle provvidenze Naspi previste dalla legge per i casi di disoccupazione (in questo caso non del tutto involontaria) che deriva dalla conversione, quasi sempre, dell’assenza ingiustificata del lavoratore in un licenziamento disciplinare.
La nuova norma prevede oggi che in situazioni di questo tipo - ossia nei casi di assenza ingiustificata del lavoratore protratta oltre il termine previsto dal contratto collettivo applicato al rapporto di lavoro o, nei casi di mancata previsione da parte del contratto collettivo, per un periodo superiore a 15 giorni - il datore di lavoro “ne dà comunicazione alla sede territoriale dell’Ispettorato nazionale del lavoro, che può verificare la veridicità della comunicazione medesima” (ossia che si tratti a tutti gli effetti di assenza ingiustificata ovvero della tacita manifestazione della volontà di cessare il rapporto di lavoro da parte del lavoratore). La nuova norma stabilisce che, per effetto di tale verifica, il rapporto “si intende risolto per volontà del lavoratore e non si applica la disciplina prevista dal presente articolo” (ossia non viene richiesta in questo caso la procedura di convalida delle dimissioni prevista dalla legge). L’effetto risolutivo del rapporto di lavoro per volontà del lavoratore non si realizza “se il lavoratore dimostra l’impossibilità, per causa di forza maggiore o per fatto imputabile al datore di lavoro, di comunicare i motivi che giustificano la sua assenza”.
Fin qui, la necessaria lettura ragionata della norma.
Ma la novella - che sembra riportare in vita le dimissioni per fatti concludenti che erano state introdotte dalla Legge Fornero nel 2012, poi cancellate dal Jobs Act del 2015 - fa sorgere, per come è formulata, più di una perplessità.
In primo luogo, sul ruolo dell'Ispettorato del Lavoro il quale non ha un obbligo di intervento, ma solo di ricezione della eventuale segnalazione aziendale, con la facoltà di verificare la natura dell'assenza segnalata. Questo potrebbe avere delle conseguenze pratiche di non poco conto, limitando di fatto l’efficacia del controllo, perché rimesso alla discrezionalità dell’ente.
Non si capisce nemmeno con quali criteri potranno essere selezionate dall’ITL le situazioni oggetto di verifica (soggette necessariamente a segnalazione da parte dell’azienda considerato che per ogni settore di riferimento potrebbero esserci - o non esserci come specificato dalla norma - disposizioni contrattuali specifiche). Non è dato conoscere nemmeno con che modalità operative potrebbe essere effettuata la verifica, aprendo il campo a potenziali disparità di trattamento tra casi simili, anche tenuto conto della mole dell’attività ispettiva normalmente in corso.
Ma i timori non riguardano solo il potere di verifica. Se, infatti, la finalità della norma è stata dettata dalla necessità di evitare in situazioni simili il ricorso al procedimento disciplinare “necessitato” anche in presenza di una volontà nei fatti di porre fine al rapporto di lavoro da parte del lavoratore assente, non va nemmeno trascurata l’eventualità che con tale norma possa reintrodursi sotto altra veste la pratica delle "dimissioni in bianco". Una pratica che, sebbene formalmente superata con il Jobs Act, potrebbe riemergere in forme nuove.
Ed infatti, in assenza di un controllo rigido e di una verifica obbligatoria da parte dell'Ispettorato, si teme che il meccanismo possa essere maldestramente utilizzato proprio per scoraggiare contestazioni da parte dei lavoratori. Inoltre, alcuni aspetti applicativi potrebbero lasciare esposti i lavoratori anche a forme di inadempimento grave o gravissimo da parte del datore di lavoro (come, ad esempio, il mancato pagamento dello stipendio o la mancata messa in sicurezza dell’ambiente di lavoro) per le quali l’assenza del lavoratore - che diviene assenza giustificata - si configura in quei casi come eccezione di inadempimento per le ipotesi di dimissioni qualificate (ossia per giusta causa).
Seppure sul punto la nuova norma prevede espressamente che il lavoratore possa evitare la risoluzione automatica del contratto per dimissioni, dimostrando l’impossibilità di giustificare l’assenza per causa di forza maggiore o fatto a lui non imputabile, potrebbe comunque sorgere per lui la necessità di tutelarsi comunque nei casi prospettati. Ad esempio, in contemporanea con la propria assenza, formalizzando per iscritto all’azienda la propria contestazione (che tuttavia deve essere seria e motivata) così da creare le premesse per dare conto delle ragioni che in casi di questo tipo danno luogo alle dimissioni per giusta causa (con conseguente diritto alla Naspi che invece non spetta nei casi in cui l’assenza nasconda un recesso volontario come la giurisprudenza di questi anni ha messo in evidenza - cfr. sul punto Trib. Udine sentenza n. 20 del 27 maggio 2022, mentre con riferimento alla permanenza di un obbligo di versamento del ticket Naspi da parte del datore di lavoro anche in situazioni di assenza ingiustificate cfr. Tribunale di Cremona, sentenza n. 333 del 15 ottobre 2024).
Non solo, ulteriori dubbi potrebbero derivare dalla gestione del preavviso: in caso di dimissioni (per fatti concludenti), sembrerebbe logico oltre che doveroso poter attribuire al lavoratore l’onere di eventuali trattenute per mancato preavviso che ben potranno essere detratte dalle competenze di fine rapporto. Tuttavia, la norma non chiarisce del tutto questo aspetto, né il momento preciso in cui il rapporto di lavoro può considerarsi effettivamente risolto, anche se si suppone al decorso del periodo di tempo dei 15 gg. di assenza, salvo il diverso termine previsto dal contratto collettivo applicabile al rapporto di lavoro.
E sulle previsioni (anche future?) ad opera della contrattazione collettiva intervengono peraltro ulteriori questioni, che derivano dagli orientamenti espressi in passato dalla giurisprudenza proprio in occasione dell’introduzione della norma del 2012. Si era all’epoca affermato, infatti, che alle parti collettive non è consentito di concordare l’attribuzione a determinati comportamenti del lavoratore di valore e significato negoziale di manifestazione implicita (o per facta concludentia appunto) della volontà di dimettersi, senza possibilità di prova contraria (cfr. Cass. civ. sez. lav. 02-07-2013, n. 16507).
Affermava infatti la Cassazione, che il rapporto di lavoro può estinguersi, in base all’ordinamento giuridico, esclusivamente per le cause a tal fine previste dalla legge e non è permesso alle parti introdurne di nuove (se non nei limiti della legge, come ad esempio per la tipizzazione delle cause di risoluzione del rapporto di lavoro prevista dall’art. 30 c. 3 L. n. 183/2010).
La Cassazione - supportata anche dalla dottrina (O. Mazzotta, 2012) sanzionava in pratica la previsione di matrice esclusivamente contrattuale, sul rilievo dell’impossibilità di creare un parallelismo con l’ipotesi civilistica, in cui alla parte di un rapporto obbligatorio venga attribuita una volontà negoziale implicita, ovvero per facta concludentia, con attribuzione di un determinato effetto giuridico. Fattispecie che, prevista dall’art. 1456 c.c. non sarebbe praticabile nei casi di cessazione del rapporto di lavoro - pur nel quadro della natura civilistica dei contratti collettivi - per la naturale posizione di debolezza tradizionalmente attribuita dal nostro ordinamento giuridico al lavoratore.
Del resto - affermava già all’epoca la suprema Corte di Cassazione - l'assenza ingiustificata e protratta oltre un certo termine può essere assunta, in sede di contrattazione collettiva o individuale del rapporto di lavoro privato, quale causa di scioglimento del rapporto di lavoro, soltanto considerandola quale sanzione disciplinare (cfr. Corte cost. 29 novembre 1982 n. 204 e n. 427 del 1989) anche perché necessariamente preceduta dalle garanzie procedimentali previste nella L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 7, commi 1, 2 e 3 (Cass. 6 ottobre 2005 n. 19418).
In definitiva, secondo il risalente orientamento della Cassazione sarebbe sempre necessaria la manifestazione espressa - specie da parte del prestatore di lavoro (quale contraente più debole) - della volontà di porre termine al rapporto di lavoro, non potendo ritenersi valida e applicabile in materia di diritto del lavoro la clausola risolutiva espressa, ossia la previsione dell’attribuzione al comportamento di una delle parti del rapporto contrattuale di un significato implicito con effetti definitivi sulla continuità dello stesso.
Ma allora, viene da chiedersi, se immaginiamo che la novella abbia inteso risolvere questo scoglio interpretativo introducendo per legge una specifica ipotesi di risoluzione del rapporto di lavoro, le modalità oggi previste risolveranno definitivamente la questione a beneficio di aziende e lavoratori?
Solo l’applicazione pratica di questa norma - al netto di eventuali e auspicabili chiarimenti operativi da parte del Ministero del lavoro o dello stesso Ispettorato del lavoro - potrà aiutare a sciogliere i molti dubbi che essa nasconde.
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