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Archivio newsJobs Act ma non solo: l’ultima parola ai referendum
Abrogazione della disciplina del Jobs Act, dei contratti a termine a-causali e dei limiti massimi di indennizzo per il licenziamento nelle imprese fino a 15 dipendenti, ma non solo. Stiamo per assistere ad una nuova completa revisione di alcune fondamentali norme del nostro ordinamento giuslavoristico? E’ il primo interrogativo che ci si pone dopo che la Corte costituzionale ha dichiarato ammissibili alcuni quesiti referendari in merito all’abrogazione di alcune disposizioni riguardanti il nostro diritto del lavoro. Siamo pronti a dire addio, se i referendum poi verranno approvati dall’elettorato, a queste disposizioni?
Stiamo per assistere ad una nuova completa revisione di alcune fondamentali norme del nostro ordinamento giuslavoristico? È questo il primo interrogativo ad emergere dopo la pubblicazione delle sentenze 12, 13 e 14/2025 preannunciate dal comunicato stampa della Corte costituzione dello scorso 20 gennaio 2025 con il quale la Consulta ha dichiarato di avere ammesso alcuni quesiti referendari proposti dalla CGIL in merito all’abrogazione di alcune importanti disposizioni riguardanti il nostro diritto del lavoro (in particolare la disciplina del Jobs Act, dei contratti a termine acausali e del licenziamento nelle imprese fino a 15 dipendenti).
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Referendum sul lavoro: perché sì e perché no
Siamo quindi pronti a dire addio - se i referendum poi verranno approvati dall’elettorato - alla disciplina del contratto a tutele crescenti (D.Lgs. n. 23/2015)? Disciplina, peraltro, già oggetto di ampia revisione da parte della Consulta in questi anni, tanto da averne consistentemente limitato la portata.
Ma anche a dire addio al sistema della a-causalità per i primi 12 mesi di rapporto di lavoro per i contratti a tempo determinato? Disciplina oggi in vigore dopo gli aggiustamenti voluti dal decreto Dignità del 2018 e dalla legislazione successiva, anche del periodo pandemico.
Si tratta dei tre quesiti referendari - tra quelli ammessi - che riguardano in particolare:
- la richiesta di referendum abrogativo della disciplina integrale del “Contratto di lavoro a tutele crescenti - Disciplina dei licenziamenti illegittimi” (D.Lgs. n. 23/2015);
- la richiesta di referendum abrogativo denominata “Piccole imprese - Licenziamenti e relativa indennità” (art. 8 L. n. 604/1966);
- la richiesta di referendum abrogativo denominata “Abrogazione parziale di norme in materia di apposizione del termine al contratto di lavoro subordinato, durata massima e condizioni per proroghe e rinnovi” (art. 19 e 21 D.Lgs. n. 81/2015).
Con riguardo al contratto a tempo determinato, l’obiettivo dei referendari è cancellare la possibilità dell’assunzione a termine per i primi 12 mesi senza l’utilizzo delle causali che la legge prevede, invece, oggi unicamente al superamento del limite iniziale dei 12 mesi. Qualora l’iniziativa risultasse vittoriosa, l’assunzione a termine anche per periodi inferiori ai 12 mesi richiederebbe sempre la specificazione di una causale, che resterà peraltro circoscritta soltanto (a norme invariate) a quelle previste dalla contrattazione collettiva dei diversi settori ed alla causale sostitutiva. Lo scopo perseguito (e dichiarato) con il quesito referendario è quello di abrogare la norma che consente di stipulare contratti a temine senza alcuna causale giustificativa nei primi 12 mesi di durata, per far sì che l’assunzione a tempo determinato resti fissata entro un tetto massimo di 24 mesi comprensivi di proroghe e rinnovi, senza alcun tipo di eccezione e solo in forza delle causali sostitutive e di quelle previste dalla contrattazione collettiva (peraltro all’epoca eliminate proprio dal cd. decreto Dignità). Oggi - almeno fino al 31 dicembre 2025 dopo le modifiche introdotte dal decreto Milleproroghe - la causale dopo i 12 mesi può essere fondata, come è corretto che sia, anche su esigenze di natura tecnica, organizzativa o produttiva individuate dalle parti, in assenza di previsioni da parte della contrattazione collettiva. La finalità dichiarata è quella di intervenire su uno strumento contrattuale che negli anni - ad avviso della organizzazione sindacale referendaria - si sarebbe trasformato in uno strumento di precarietà. In realtà, va osservato che è fuorviante continuare a definire il contratto a tempo determinato come uno strumento di precarietà perché è proprio in forza della liberalizzazione dell’assunzione senza il vincolo delle causali per i primi 12 mesi che il contratto di lavoro a tempo determinato si è rivelato essere uno strumento di vera e propria flessibilità organizzativa, che consente l’assunzione inizialmente libera in vista proprio della successiva stabilizzazione. Ma come sappiamo l’opera di contrasto a questo istituto contrattuale è ancorata ad una certa impostazione anche giurisprudenziale legata al sistema delle causali, muovendo sempre dal principio generale - idealmente corretto - per cui “il rapporto di lavoro subordinato è normalmente a tempo indeterminato” e che l’assunzione con contratto a tempo determinato costituisce sempre una eccezione (ex plurimis cfr. Cass., Sez. lav., 29 ottobre 2021, n. 30805).
Più complessi e forse anche più preoccupanti - a mio avviso - gli altri due quesiti proposti in materia di licenziamento individuale. Se approvati dall’elettorato potrebbero avere un impatto di non poca rilevanza in questa materia, tanto da richiedere un intervento del legislatore.
Va tuttavia ricordato che, con riguardo alla disciplina del decreto sulle tutele crescenti (il D.Lgs. n. 23/2015), la Corte costituzionale è già intervenuta a più riprese e con diverse decisioni di cui ben 6 solo nel 2024: la n. 3/24; la n.7/24; la n. 22/24; la n.44/24; la n. 128/24 e la n.129/24. Cui si aggiungono quelle che le hanno precedute: la n. 194/2018, la n. 150/2020 e le due interpretative di rigetto, la n. 254/2020 e la n. 183/2022 (cfr. L. Failla “Il sistema del contratto a tutele crescenti è ormai destrutturato. Il legislatore deve intervenire!”). Per il che l’impatto del referendum, anche se vittorioso, pare essere più simbolico che di vera sostanza.
Tale disciplina, dopo gli interventi della Corte costituzionale risulta, infatti, già gravemente compromessa. L’obiettivo sotteso al contratto a tutele crescenti era, infatti, quello di poter identificare in via preventiva dei parametri certi e trasparenti per chi - come il giudice, ma anche le aziende e i lavoratori - è chiamato poi a valutare - in caso di accertamento circa la illegittimità di un recesso - i fatti alla base di esso e, quindi in primo luogo, il discrimine tra l’applicazione di una tutela di tipo reintegratorio oppure di una tutela di tipo risarcitorio e nell’ambito di quest’ultima tutela, definire i limiti economici della tutela da applicare. Si tratta di un impianto normativo nel quale la tutela reintegratoria resta ancorata (in teoria) alle fattispecie tradizionali relative alla nullità del licenziamento ed alla sua discriminatorietà, mentre quella risarcitoria è stata differentemente rimodulata a seguito degli interventi della Corte costituzionale, introducendo meccanismi di valutazione in sede giudiziale legati alla prova della sussistenza o insussistenza del fatto materiale alla base del licenziamento, che guidano, pertanto, la possibilità di accordare una tutela reintegratoria, oppure una tutela risarcitoria. E ciò non più solo nei casi di licenziamento per giustificato motivo soggettivo, ma anche con riferimento ai licenziamenti per motivi economici oggettivo (cfr. Corte Cost. n. 128/24 e n. 129/24). L’obiettivo originario della particolare disciplina del contratto a tutele crescenti era quello di definire per il lavoratore assunto a partire dal 7 marzo 2015 dei parametri più certi per la determinazione dell’ammontare del risarcimento dovuto in caso di licenziamento riconosciuto illegittimo. Parametri, peraltro, considerati corretti dalla stessa Consulta anche con riferimento alle piccole e medie imprese (cfr. Corte Cost. n. 183/2022) poiché rientranti nella discrezionalità del legislatore che può fissare un minimo e un massimo. E ciò nel rispetto della specificità delle piccole realtà organizzative, che non può comunque giustificare un sacrificio sproporzionato del diritto del lavoratore di conseguire un congruo risarcimento del pregiudizio sofferto.
Ed è invece su questo punto relativo alle piccole imprese (fino a 15 dipendenti) che interviene il terzo quesito referendario previsto in materia di licenziamento individuale. Si tratta del quesito riguardante la modifica dell’art. 8 L. n. 604/1966. Qui l’obiettivo del quesito è quello di eliminare il tetto massimo di 6 mensilità all’indennizzo previsto nelle realtà aziendali medio-piccole (fino a 15 dipendenti) in caso di licenziamento individuale riconosciuto illegittimo, determinando la possibilità che il giudice fissi un indennizzo più alto (potenzialmente senza limiti!) rispetto al limite massimo di 6 mesi oggi previsto dalla norma. La finalità principale - si legge nelle motivazioni ai quesiti presentate dalla CGIL - è “quella di dissuadere i datori di lavoro dal ricorso a “facili licenziamenti” e contestualmente, a restituire dignità e tutela rafforzata ai lavoratori che operano in imprese di dimensioni più contenute, ma non per questo necessariamente più deboli dal punto di vista economico”. Va tuttavia considerato, a favore di tale disposizione e nel testo che da molti anni trova adeguata applicazione nella realtà, che è assai difficile immaginare che un’azienda possa procedere concretamente a “facili licenziamenti”. Un licenziamento non è mai un’operazione facile, né per le aziende grandi, né tantomeno (a maggior ragione…) per quelle di minori dimensioni, nelle quali, peraltro, la perdita di un occupato di solito si fa sentire in misura ancora maggiore. Mentre quello che è rilevante è la possibilità di avere parametri certi per poter quantificare il rischio economico connesso con un (eventuale) licenziamento. Operazione economica (e di bilancio) che ogni azienda fà annualmente per ragioni che di solito nulla hanno a che vedere con la volontà di licenziare. Al contrario, con l’accoglimento del quesito referendario si otterrebbe proprio l’opposto: non poter più quantificare in anticipo l’ammontare dell’indennizzo massimo o minimo dovuto per il caso di licenziamento riconosciuto illegittimo (e con variabili che spesso non dipendono dalla prova della sua legittimità). Ciò potrebbe avere come conseguenza di assegnare al giudice del lavoro, in caso di contenzioso, una discrezionalità in teoria illimitata qualora non ancorata a parametri di buon senso ed equità (ad esempio, la durata del rapporto di lavoro, le dimensioni dell’azienda, l’età del lavoratore e così via). Siamo sicuri - ci si chiede - che sia la strada giusta per riaffermare i diritti dei lavoratori e per favorire l’occupazione all’interno delle piccole imprese? Di sicuro non la certezza del diritto, perché dall’esito favorevole del referendum deriverà indubbiamente la necessità di mettere mano nuovamente a tale disciplina.
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Fonte: https://www.ipsoa.it/documents/quotidiano/2025/03/15/jobs-act-non-solo-ultima-parola-referendum