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Archivio newsContratto a termine: i dati ISTAT riportano a vecchie contrapposizioni di politica legislativa?
A quasi 2 anni dall’entrata in vigore della riforma del contratto di lavoro a termine, i dati ISTAT certificano che in un contesto nel quale cresce il numero degli occupati si registra un incremento dei contratti a tempo indeterminato del 3,1%, e, di contro, una riduzione in doppia cifra del ricorso al contratto di lavoro a tempo determinato (- 10,0%). Questi dati riportano alla mente vecchie contrapposizioni mai sopite fra le diverse opzioni di politica legislativa intorno al contratto di lavoro a termine. Smentiscono nettamente le speculazioni prognostiche operate da coloro che ponevano in correlazione il grado di flessibilità, l’utilizzo opportunistico del contratto a termine e la paventata precarizzazione delle assunzioni. La banale verità? Gli imprenditori assumono a tempo determinato (causale o meno che sia) quando le circostanze produttive e del mercato del lavoro glielo consigliano.
A quasi 2 anni dall’entrata in vigore della riforma del contratto di lavoro a tempo determinato, la lettura dei dati sull’occupazione pubblicati dall’ISTAT il 13 marzo 2025 e relativi al quarto trimestre 2024 impone alcune riflessioni in ordine all’andamento del mercato del lavoro, in particolare sull’utilizzo del contratto di lavoro a termine e al dibattito che intorno a questo istituto si è sviluppato negli ultimi due decenni, quanto meno a far data dall’entrata in vigore del D.Lgs n. 368/2001.
L’incipit della riflessione non può che essere la lettura del dato che indica nel 2024 un incremento dell’occupazione a tempo indeterminato contro una riduzione del ricorso al contratto di lavoro a termine.
I dati provenienti dall’ISTAT certificano che in un contesto nel quale cresce il numero degli occupati si registra - fra il quarto trimestre 2023 e lo stesso trimestre del 2024 - un incremento dei contratti a tempo indeterminato del 3,1%, e di contro, una riduzione in doppia cifra del ricorso al contratto di lavoro a tempo determinato (- 10,0%).
Questi dati riportano alla mente vecchie contrapposizioni mai sopite fra le diverse opzioni di politica legislativa intorno al contratto di lavoro a termine.
Da un lato si annovera(va)no i sostenitori della posizione per la quale il contratto di lavoro a tempo determinato dovesse essere - nei limiti imposti dai vincoli comunitari - liberalizzato in modo da svolgere, in un sistema ingessato da vincoli eccessivi al licenziamento e allo stesso patto di prova, il ruolo di strumento di accesso “graduale” all’occupazione in una determinata azienda. Secondo questa impostazione di politica del diritto, il contratto a tempo determinato avrebbe dovuto rappresentare, insomma, una sorta di “viatico” per raggiungere un’occupazione stabile nell’ambito di una specifica azienda: tanto più se si considera la pacifica apponibilità del patto di prova anche al contratto a termine.
In questa visione il ricorso al contratto a temine non era legato all’individuazione di causali che ne legittimassero il ricorso, ma solo al rispetto delle percentuali di utilizzo dello strumento, il tutto con una conseguente riduzione del contenzioso giudiziale che aveva caratterizzato la vigenza del D.Lgs. n. 368/2001. Massima espressione di questa logica sono gli interventi normativi culminati con l’emanazione del D.Lgs. n. 81/2015 nella sua versione originaria.
Ad una visione diametralmente opposta sono ascrivibili gli interventi del decreto Dignità (D.L. n. 87/2018,) per cui l’utilizzo del contratto di lavoro a termine oltre il periodo di utilizzo acausale di 12 mesi doveva essere disincentivato, condizionando l’ammissibilità dell’apposizione di un termine al contratto solo a fronte della sussistenza di causali giustificative particolarmente stringenti. Si ricordi che l’art. 19 del D.Lgs. n. 81/2015, come modificato del decreto Dignità, prevedeva che il contratto a termine potesse eccedere il limite dei 12 mesi “solo in presenza di almeno una delle seguenti condizioni: a) esigenze temporanee e oggettive, estranee all'ordinaria attività, ovvero esigenze di sostituzione di altri lavoratori; b) esigenze connesse a incrementi temporanei, significativi e non programmabili, dell’attività ordinaria”. Secondo questa visione, la limitazione dell’accesso al contratto di lavoro a tempo determinato avrebbe comportato un incremento dell’impiego a tempo indeterminato e conseguentemente - a dire dei fautori di questa posizione - ad un lavoro stabile e non precario.
Per diverse ragioni sia storiche che politiche che economiche, fra cui il periodo pandemico, nessuna delle due teorie è mai stata pienamente confermata.
Nel 2023 il Legislatore interviene con il decreto Lavoro (n. 48/2023) sul contratto di lavoro a tempo determinato con una misura che non ha - e in ragione del pragmatismo di questo legislatore, probabilmente, nemmeno aspira ad averla - la forte connotazione ideologica dei precedenti interventi legislativi, limitandosi a prendere atto che l’assetto normativo derivante dal decreto Dignità rappresentava una eccessiva rigidità nel mercato del lavoro: rigidità che peraltro, in una certa misura, era già stata riconosciuta, nel periodo pandemico, dalla legislazione emergenziale.
L’attuale contesto normativo, infatti, pur mantenendo inalterato l’accesso acausale al contratto di lavoro a tempo determinato per i primi 12 mesi, ha previsto che per il periodo eccedente e fino al limite dei 24 mesi può essere apposto un termine al contratto di lavoro solo a fronte delle causali fissate dalla contrattazione collettiva.
La norma del decreto Lavoro, in fase di prima applicazione - al momento fino al 31 dicembre 2025 - statuisce che in caso di assenza di previsioni della contrattazione collettiva sarà possibile apporre un termine al contratto di lavoro a fronte di “esigenze di natura tecnica, organizzativa o produttiva individuate dalle parti” oltre che per le ragioni sostitutive: non sfuggirà il parziale ritorno alla causale “generale” del D.Lgs. n. 368/2001, combinato con una valorizzazione dell’autonomia individuale delle parti, peraltro non priva di qualche incertezza interpretativa (in assenza di previsioni della contrattazione collettiva, la causale generale vale solo se richiamata dal contratto individuale?).
Spostando l’attenzione sul rapporto fra contesto normativo e dati del mercato del lavoro emerge chiaramente che questi ultimi - a due anni dall’entrata in vigore della riforma del contratto a termine - smentiscono nettamente le speculazioni prognostiche operate da coloro che ponevano in correlazione il grado di flessibilità esibito dalla normativa vigente, l’utilizzo opportunistico dello strumento e la paventata precarizzazione dell’impiego.
Sotto questo profilo, se fosse vero che una norma che rimuove ostacoli al ricorso al lavoro a termine, ne altera l’equilibrio con il contratto a tempo indeterminato, a favore del primo, non si spiegherebbe la riduzione del 10% nell’ultimo anno del ricorso al contratto di lavoro a tempo determinato e il contestuale aumento dei contratti di lavoro a tempo indeterminato.
A ben vedere molte potrebbero essere le spiegazioni di fenomeno in controtendenza rispetto alle aspettative: dalla fase espansiva dell’economia, alla difficoltà che il mercato, in questo momento, ha di reperire e trattenere le risorse, dalla necessità di proteggere gli investimenti che l’impresa opera per colmare il mismatch delle competenze, ed altri ancora.
L’approccio, probabilmente, più corretto per l’analisi di questi fenomeni, però, è quello di fare un passo indietro e prendere atto della circostanza per cui - in linea generale - non si dovrebbe attribuire alle norme una capacità di incidere sul mercato superiore a quelle che effettivamente possono avere.
Invece, è costume radicato del nostro Legislatore, non solo in materia lavoristica, l’idea di introdurre rigidità sul presupposto che le imprese farebbero cattivo uso della flessibilità: una linea di pensiero che, per fortuna, i dati oggettivi una volta tanto smentiscono, suggerendo la banale verità che gli imprenditori assumono a tempo determinato - causale o meno che sia - quando le circostanze produttive e del mercato del lavoro glielo consigliano.
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